Attualità enogastronomica

Il tesoretto degli chef accumulato durante la pandemia: i dati dei propri clienti non condivisi con le piattaforme

di:
Alessandra Meldolesi
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delivery copertina

C'è chi si è affidato alle piattaforme, guadagnando professionalità nella consegna e visibilità rispetto ai competitor, e chi si è organizzato in proprio, forte di un parterre di clienti fidelizzati, svolgendo talvolta le consegne in prima persona con mezzi privati tenendo per se i dati dei propri acquirenti.

Delivery

Delivery sì o no? Il dibattito in piena pandemia ha infiammato la ristorazione. C’è stato chi, come Elsa Mazzolini, autorevole direttrice della Madia Travelfood, ha immediatamente preso la distanza da RAD (Ristorazione A Distanza), dark, ghost e cloud kitchen, con le loro 50 sfumature di grigio. E in generale i cuochi stessi si sono divisi, anche se alla fine secondo le stime di Ristoratore Top, agenzia che riunisce 11mila esercizi, quantomeno a provarci è stato il 77% della categoria. L’alternativa, infatti, sarebbe stata per molti mesi la chiusura totale. 


Come è noto, i già magri margini di profitto dell’attività sono stati rosicchiati oltre l’osso da piattaforme e packaging, rendendo l’opzione nel suo complesso una tattica comunicativa e perfino psicologica per superare lo smarrimento, più che una reale alternativa di business, a fronte di una perdita di fatturato che nel suo complesso si è attestata attorno al 40%, da 86 a una cinquantina di miliardi l’anno. Passata la buriana (o almeno si spera) emergono tuttavia altri aspetti cruciali da tenere in considerazione. Per esempio le banche dati.

Il discrimine passa tra chi si è affidato alle piattaforme, guadagnando professionalità nella consegna e visibilità rispetto ai competitor, e chi si è organizzato in proprio, forte di un parterre di clienti fidelizzati, svolgendo talvolta le consegne in prima persona con mezzi privati. I primi sarebbero addirittura il 43% della categoria, percentuale cui va sommato il 9% di chi ha praticato entrambe le strade. Il vantaggio è stato duplice: non solo il risparmio sulle commissioni, che possono arrivare al 35% dello scontrino, nonostante ai rider tocchi poco più di un’elemosina, ma anche (e soprattutto) un tesoretto di informazioni su abitudini, preferenze, identità del proprio pubblico, più che mai prezioso al momento di organizzare la ripartenza con offerte e nuove formule.


Il sito businessindiser.com riporta a questo proposito il commento di Lorenzo Ferrari, fondatore dell’Osservatorio Ristorazione, emanazione di Ristoratore Top. Parla di un vero e proprio tesoretto risultante da un anno di pandemia, che rischia di finire nelle grinfie sbagliate: “Chi si è dotato di delivery autonomo con una propria flotta, spesso convertendo a rider i dipendenti di sala e cucina, e sistemi digitali di prenotazione e gestione dei dati, ha potuto utilizzare i contatti dei clienti, nuovi e abituali, e sopravvivere così alle chiusure forzate con risultati migliori rispetto a chi ha esternalizzato le consegne”. Si ritrova inoltre con una brigata ancora largamente in essere, non decimata dagli abbandoni e dai traslochi che flagellano il settore, con possibilità di ripartenza lampo.

Ma attenzione, puntualizza Ferrari, “il delivery e le dark kitchen non sostituiranno la ristorazione tradizionale, dato che il futuro della ristorazione sono i ristoranti: l’esperienza vissuta in presenza, nel locale, è insostituibile. La pandemia ha marcato più in profondità la differenza fra il mondo della consegna a domicilio e quello del sit-in. Questo avrà nei prossimi mesi forti impatti sulla ristorazione, con l’aumento di attività alle due estremità, luxury e accessible convenience, per soddisfare ogni tipo di esigenza. Perché la ristorazione, da quando è nata, non guarda in tasca a nessuno”. A fungere da discrimine fra le due esperienze gastronomiche saranno probabilmente il servizio, la convivialità e la location, irrinunciabili ingredienti del sit-in, ancor più determinanti che in passato.

Fonte: businessinsider.com

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