Oggi annoverato fra i migliori chef dell’America Latina, Mariano Ramòn conserva il basso profilo che l’ha portato al successo: “Non ci rendiamo conto del valore dell’anonimato. Io a 25 anni volevo uscire su El Gourmet, ora desidero solo che si conosca il nome del mio ristorante”.
La notizia
In Argentina è un fenomeno, il Gran Dabbang, ristorante di cucina fusion nel quartiere Palermo di Buenos Aires, quarantottesimo ai 50 Best Discovery. Eppure, il nome di Mariano Ramon non è familiare neppure ai foodies più incalliti, tanto è schivo questo giovane chef, diligentemente concentrato sul suo lavoro.A cucinare, del resto, ha iniziato per divertimento, non certo progettando una carriera. Prima ci sono state le trasmissioni televisive di Gato Dumas, poi uno stage presso il ristorante Mallmann di La Boca, visto che mancavano i soldi per proseguire gli studi. Abbastanza per convincersi che sarebbe stata la sua strada e acquisire man mano l’autodisciplina indispensabile per lavorare in brigata.
È seguito il passaggio da Narda Lepes, che gli ha aperto le porte di stage avventurosi, dall’Europa al Perù, aiutandolo ad ampliare i suoi orizzonti. Poi l’impiego in un celebre ristorante fusion della Nuova Zelanda, scelto come passerella verso il sud est asiatico; le esperienze in Tailandia, Laos, Malesia e Vietnam. “Ma all’inizio è stato molto difficile. A quei tempi nessuno riusciva a capire come un occidentale volesse lavorare gratis in un ristorante del posto per imparare la cucina locale”.
“L’Asia mi sembrava un luogo esotico e non ne conoscevo la cucina. È un mondo a parte, cosicché ciò che sai, serve fino a un certo punto. Le cucine sono organizzate in un altro modo, i prodotti sono diversi, come il modo di cucinare, le tecniche e i condimenti. Si può avere un’idea generale, ma ci sono molte piccole sottigliezze secondo le regioni, il nord, il sud, le influenze di altri paesi. La cosa più bella era lavorare in un ristorante, accumulare conoscenze, poi andare a prendere qualcosa con i cuochi, recarsi a casa loro, vedere posti diversi, tutto locale. Stando insieme apprendi la cultura, oltre la cucina”.
La prima mossa al rientro è stata censire gli ingredienti esotici prodotti in Argentina, cosicché oggi al Gran Dabbang vengono importati solo salsa di pesce, latte di cocco e tamarindo. “Questo non è un ristorante indiano né del sud est asiatico, non è un ristorante di cucina tradizionale. Non seguiamo nessun tipo di ricetta, non ci riuscirei per la mia indisciplina; quello che vogliamo è cercare sapori. Ci sforziamo sempre di lavorare con ciò che c’è qui e dal momento che in Argentina esistono tanti climi e tanta geografia, possiamo sempre scoprire cose nuove. È quello che dico ai produttori: qualsiasi cosa vogliano provare, qualsiasi follia, me la mandino e vedrò cosa farne. Così abbiamo costruito il nostro catalogo di prodotti”.
Il successo non ha cambiato Mariano, che resta ben piantato per terra: del riconoscimento ai 50 Best dice che non ci crede, ma gli è stato utile per apportare migliorie e ingrandire la squadra grazie all’afflusso di nuovi clienti. “Non abbiamo ufficio stampa né niente. Uso Instagram sporadicamente e mi dicono che non è abbastanza. Non rinnego i discorsi, so cosa sono, so che servono, che rappresentano uno strumento di diffusione, ma ora il trend nei ristoranti è che un milione di persone li seguano, mentre loro non seguono nessuno. Invece io dal ristorante seguo anche i vecchi compagni di scuola e magari commento. Poi qualcuno si stupisce”.
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Quanto ai piatti, “mi annoio a preparare sempre gli stessi, ma altresì ho imparato che per avere costanza, devono durare nel tempo. Per questo teniamo in carta classici che cambiano durante l’anno e cose nuove del momento. Magari diciannove volte escono bene, ma anche il ventesimo arriva a qualcuno ed è l’esperienza che si porta a casa. In pandemia siamo passati dai ristoranti strapieni a non avere nessuno, quindi abbiamo dato una nuova importanza al cliente e al lavoro che facciamo”.
“La mia via di fuga è il contrario della tendenza ad espandersi e aprire sempre più ristoranti. Io nel futuro mi vedo sempre più piccolo, come quei posti in Giappone con il vecchio novantenne e dieci persone. Non ci rendiamo conto del valore dell’anonimato, di poter camminare dove vogliamo senza che nessuno ci parli. Siamo sempre molto esposti. Io a 25 anni volevo uscire su El Gourmet, era il mio sogno. Ora desidero solo che si conosca il nome del ristorante, il mio non mi interessa”.
Fonte: cronista.com
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Foto: @Gran Dabbang