A Senigallia non solo pesce d’avanguardia: dal 2003 un secondo filone creativo fa volare con pernici e alzavole la creatività del grande chef
La Storia
La Storia di Mauro Uliassi
Fra i criteri che Mauro Uliassi ha codificato per disciplinare la creatività della sua crew, figura da sempre l’autenticità: un piatto deve affondare nel vissuto individuale e collettivo per scongiurare ogni sospetto di “vezzo dello chef”, tipo branzino in Val d’Aosta. Né va diversamente per i piatti di selvaggina, che dai primi anni 0 affiancano le proposte di mare del Lab, visto che la caccia nelle Marche è quotidianità. “Io stesso da ragazzo vi prendevo parte con mio padre e mio nonno”, racconta Uliassi. “Ricordo il rito dell’apertura della stagione, l’addestramento dei cani, le levatacce alle 3 di mattina e la cura nel posizionare i richiami dentro le cassette. Situazioni bellissime, come quando all’alba i cacciatori facevano colazione nei bar di paese con castrato alla griglia e vino rosso. E ancora l’odore di polvere da sparo delle cartucce fatte a mano, il sudore che si mischiava nell’aria all’afrore del sangue, una volta a casa i volatili da spennare e poi strinare. Diverse volte ho anche sparato: mi guardavo tutto fiero allo specchio con il giubbotto mimetico, gli stivali, la cartucciera e vedevo un guerriero di un’epoca lontana. A 14 anni però è tutto finito, per il rifiuto della sofferenza degli animali; convinsi anche mio padre ad appendere il fucile al chiodo”.
“Quando ho aperto il ristorante, la scelta di privilegiare il pesce è stata naturale. In giro avevo cucinato sì e no un paio di piatti a base di selvaggina, perlopiù di pelo, ingrediente che non mi appartiene. Poi qualcosa è riaffiorato dal profondo, in modo spontaneo. Hanno cominciato a proporci cacciagione e ci siamo detti: prendiamola e vediamo cosa ci possiamo fare. Così abbiamo rimesso mano in quelle bestie da spennare, che profumano della loro pastura, talvolta nettamente di ginepro, ed è stato un tuffo nel passato. Trovandoci sul lungomare è stata automatica la contaminazione con il pesce, per gusto e consistenza. I momenti di svolta sono stati due. Quando Rafael Garcia Santos ha acclamato Tordi e murici quale Gran Plato a Lo Mejor de la Gastronomia 2003, dandone una lettura oltre le nostre intenzioni, ha scatenato una serie di ragionamenti, cosicché abbiamo iniziato a muoverci sempre più sul mercato e a ricercare instancabilmente. Ci siamo scatenati, anche perché a quei tempi eravamo quasi gli unici: Don Alfonso serviva le beccacce, Vissani i tordi, la Meroi il gallo cedrone, ma erano tutti piatti isolati”.
“Il secondo momento di svolta è caduto nel 2008, quando Grignaffini ci ha chiesto un intero pranzo di caccia. Ed è allora che sono nati tanti piatti, che non possiamo più servire a causa delle nuove normative, più restrittive. Ma a quei tempi fu un bel lancio. Leggendo tutti i libri che ero riuscito a procurarmi in materia, avevo notato un errore ricorrente: mentre era ormai dominio comune servire il piccione appena scottato, al colombaccio e alla pernice non era riservata la medesima attenzione. Ancora sottostavano a conoscenze e filosofie della cottura anacronistiche, che partivano dal presupposto di una carne coriacea da nutrire con bardature multiple e sottoporre a lunghe cotture, finalizzate all’ottenimento di intingoli saporiti. Questo perché se metto in un tegame caldo una beccaccia, i tendini si contraggono e tutto il corpo si irrigidisce, per cui è giocoforza prolungare la cottura con liquidi vari. Invece noi abbiamo iniziato a smontare sistematicamente i volatili: prendevamo le parti più interessanti, i petti intrisi di sangue, le cosce se polpose; il resto della carcassa finiva nei fondi e le interiora con il sangue nelle salse. Oggi sembra scontato, ma a quegli anni era rivoluzionario. Il procedimento per le basi restava classico; le cotture, sulla plancha o a bassa temperatura, erano invece moderne. Il prodromo di una nuova idea di selvaggina, legata al mare, perché le polpe sono simili a filetti di pesce, nella struttura, che richiede cotture veloci, e anche nel gusto”.
“Idem per la frollatura. Un tempo le beccacce erano appese in cantina e quando la testa imputridita si staccava dal corpo, significava che l’animale era pronto. Il risultato era un gusto di sangue ossidato cui non siamo più abituati e che comunque può essere ottenuto percorrendo altre strade, per esempio con gli umori nelle salse. Anche perché le cotture veloci, in punta di fucile, non sono in grado di neutralizzare le cariche batteriche come le lunghe cotture del passato. Per i fondi ci è venuto in soccorso Berasategui: lui parte da un brodo di ceci, elimina i legumi e ci mette a bollire coda di bue e aromi; con questo liquido bagna le carcasse dei volatili, precedentemente rosolate e sfumate con una miscela di tre aceti, bianco, rosso e di mele. Cosicché il gusto non è quello stucchevole di carne cotta e glutammato, ma risulta molto più agile”.
Ancora oggi in carta c’è un menu selvaggina, per quanto limitato da disponibilità e normative. Gli stili dei suoi piatti oscillano fra classicismo e ricerca gustativa: senza abiurare pancia e gola, Uliassi li accorda sul diapason di uno dei palati più precisi d’Italia, senza mai smettere di riflettere sulla fenomenologia della sensazione. E la pedagogia del mare disciplina una cucina impossibile, fresca e agile, tanto profonda quanto fitta di memoria.
I Piatti
Si può cominciare con il Petto crudo di alzavola con coulis di fragole e torchon di foie gras (2008), primo crudo di caccia della casa. “È nato assaggiando un brano di polpa, che aveva la stessa untuosità allappante, sanguinolenta e dolciastra del prosciutto Joselito. Gli altri ingredienti non potevano che accordarsi: frutta e foie gras sono come pane e cioccolato”.
Ne rappresenta un’evoluzione il Battuto di colombaccio con i ricci (2015), dove la carne è condita come una tartare. “Proprio in quel periodo lavoravamo sulla ‘ferrosità’ di alcuni prodotti ittici. Ed è stato naturale sposare le note di sangue alle sfumature salmastre e iodate che si ritrovano nel mare”.
Il primo sposalizio di terra e mare risale però ai Bocconi di quaglia con olive, cipollotto e murici (2008). “Le carcasse di questi volatili, una volta tostate, sprigionano un intenso aroma di caffè. Si accordano bene alle murici per la consistenza carnosa e la sapidità”.
È poi sontuosa la Royale di colvert (2010), piatto iper classicista inizialmente eseguito con la lepre. “Ma spesso arrivavano esemplari inadatti per l’età, che restavano stopposi in cottura. Così abbiamo virato la ricetta sul germano, che ha un petto sufficientemente grande. Lo apriamo e lo farciamo con il battuto delle cosce misto a Cognac, tartufo nero e foie gras, poi chiudiamo il tutto nella pellicola e cuociamo a bassa temperatura per 16 ore, alla maniera dei Roca. Con i succhi ricchi di sangue che rilascia prepariamo la salsa, nappante come una ganache”.
Ancora terra e mare nella Grouse con le ostriche (2017). “Per me la selvaggina più intensa, per i profumi di torba e affumicato. Si alterna a bocconi di ostrica e un olio di perilla per la nota di liquirizia che allunga la freschezza e tira i fili del salmastro. Viene ricavato secondo la tecnica di Andoni, pacossando erba e grasso e filtrando a freddo”.
Il Risotto con beccaccino, castagne e ginepro (2012) è preparato alla maniera marchesiana, con la mantecatura di rito al burro acido. Fa da base ai petti di beccaccino rosolati, più castagne bollite e ripassate al burro e olio al ginepro.
Le Tagliatelle quaglia e murici (2011) svolgono l’intuizione del “gran plato” di Garcia Santos, per cui le Marche sono terra e mare, caccia e pesca. Ma sono imperdibili i Ravioli di finanziera di caccia (2010), dove protagoniste sono le interiora dei selvatici, perennemente in mano ai cuochi. Saltate con aglio, rosmarino e Cognac, più quel tanto di foie gras per legare e il tartufo nero d’ordinanza, costituiscono la farcia di una pasta spessa di patate, modellata in bottoni che vengono saltati con burro, salvia e nocciole caramellate.
Oppure le Tagliatelle di lepre della spagnina (2011), perché il selvatico può essere di maesa, se cacciato nella terra rada, o di spagnina appunto, quando a primavera corre per i campi a riposo dove cresce l’erba. Quindi una pasta spessa, sottile e masticabile con un trito di lepre saltato all’aglio e al rosmarino per mantecare, un battuto di dorso crudo per la nota selvatica fresca dalla diversa consistenza, una cascata verde in superficie, non meramente figurativa, composta di finocchio marino e rabarbaro, acetosa e acetosella.
Fra i secondi il colombaccio con alici del Cantabrico e radicchio in agrodolce (2012) è figlio del caso. “Avevamo riposto l’uvetta sultanina vicino a vasetti di spezie e si era delicatamente caricata di curcuma e curry. Nel preparare una salsa con le acciughe, siamo rimasti schiantati da quanto era buona per via di quelle sfumature e abbiamo replicato il caso, decidendo di servircene per un piatto di caccia. Quindi il petto di colombaccio cotto al Roner per 24 minuti, poi spadellato, con questa salsa dolceforte delicatamente speziata e il radicchio osmotizzato in acqua, aceto e zucchero prima dell’arrostitura in padella”.
La pernice alla moda dei Sibillini (2009) si ispira invece a una classica ricetta del coniglio, impanato e cotto in forno. Il volatile viene infatti disossato, tagliato a dadi e passato in un pane grossolano condito con aglio, rosmarino, finocchio selvatico e salvia, poi arrostito in padella e servito con porcini spadellati, tartufo nero e fondo di cottura.
Scivola verso il dessert l’oca laccata al tè di ciliegia e ananas (2006), piatto nato dalla voglia di cucinare una carne tipica dei cortili marchigiani. “Abbiamo iniziato nella maniera classica, al forno con le patate, come si usava ai tempi della battitura. Poi un giorno Michele Rocchi ci ha fatto assaggiare una salsa al tè aromatizzato e ne abbiamo preso spunto per l’infuso di ciliegie addensato al macrì, con cui nappiamo l’oca cotta a bassa temperatura. Sul piatto con ananas, limone e menta”.
Ed è ormai un sogno la beccaccia alla marchigiana (2008), apoteosi di una cucina impossibile. Disossata e ricoperta di uno strato di lardo profumato con timo, salvia e maggiorana, è arrostita brevemente sui due lati con l’aiuto di uno stecco dentro la stagnola, poi lasciata riposare a 60 °C nella camera di lievitazione. Viene servita su un crostone spalmato delle sue interiora saltate con burro, Cognac e foie gras, passato in forno per l’esterno croccante e il cuore morbido.
Indirizzo
Ristorante UliassiBanchina di Levante, 6 _ 60019 Senigallia (AN)
Tel. +39 071 65463
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