Sulla nostalgica piazza torinese, Ivan Milani porta la sua cucina da solista: una miscela atipica di piemontesità, orientalismi e natura dentro la selva tecnologica di Renzo Piano.
La Storia
La Storia di Ivan Milani
Il ristorante, sbalzato dal tecnigrafo di Renzo Piano, è bellissimo: al piano 35 del nuovo grattacielo Intesa, scherma il panorama di Torino, fino all’arco alpino, attraverso la selva leopardiana di una “serra bioclimatica”. Respira infatti, grazie a un sistema di pareti che si aprono e si chiudono parzialmente in modo da ottenere una climatizzazione naturale, senza riscaldamento, che consente la crescita rigogliosa di alberi ad alto fusto; ma ogni dettaglio è pensato per ottimizzare la sostenibilità, dai pannelli solari al riscaldamento dell’acqua.
Ed è un paesaggio calzante per la cucina di Ivan Milani, cuoco torinese dagli orizzonti variabili, che qui sta conoscendo la sua consacrazione, imprevista su una piazza nostalgica (la prenotazione è di rigore) e per una figura atipica come la sua. Di autodidatta totale.
“Sono uno di quelli che hanno sbagliato corso di studi. Dovevo fare il chimico industriale, invece sono finito a gestire sale cinematografiche. Nel frattempo non ho smesso di bazzicare in cucina, fin da ragazzino, facendo qualche stagione da cameriere. Nel 1997 ho aperto uno dei primi wine bar di Torino in un locale storico, il Caffè Elena, anche qui senza nessuna formazione. Ed è stato il mio primo innamoramento: siamo arrivati a 1600 referenze in carta, con una ristorazione semplice di cui curavo gli approvvigionamenti. Ho iniziato a girare ristoranti e ho scoperto quanto poteva essere divertente un certo tipo di cucina. Sono stato decine di volte da Davide Scabin, che per me è il cuoco più geniale del mondo, un maestro di libertà e di anticonformismo. Vengo considerato suo allievo, anche se abbiamo poco in comune. Ma ho fatto anche tanta Spagna.
Finché sulla soglia dei 30 anni non mi sono risolto, ho chiuso il Caffè Elena e sono passato ai fornelli. C’è stata prima la Locanda Rizieri a Diano d’Alba, consacrata a piatti tipici come vitello tonnato, plin e carne cruda, con un angolino per la ricerca e lo sviluppo. Acquistavo libri nel tentativo di replicarne le ricette, ed è stato così che mi sono impossessato di tecniche quali il sottovuoto, le basse temperature e le fermentazioni. In perfetta solitudine, perché non ho mai fatto corsi né stage. È seguito un ristorante ad Alba, dove ho cominciato a emanciparmi dal repertorio piemontese; poi il San Quintino Resort di Busca, subito dopo la partenza di Taglienti. Con Intesa c’è stato un contatto mediato da Carlin Petrini, a mia insaputa, un paio di anni fa. Il locale era già impostato, sono intervenuto per adeguarlo alle mie esigenze e lo scorso 28 giugno abbiamo aperto”.
La cucina, di impronta piemontese, cresce per innamoramenti. Il primo è l’Asia, fin dagli anni ’90. “Mi trovavo a New York ed ero intenzionato a cenare da Maccioni, ma quando chiesi di prenotare e scoprii che non c’era posto, fui dirottato in un giapponese di nome Otabe, dove feci una cena strepitosa. E ho continuato a coltivare questa passione viaggiando”. Poi ci sono il mare e l’arco alpino dietro la serra bioclimatica: una natura selvaggia che da qualche tempo fa rima con foraging.
“È stato il mio sous-chef Fabio Macrì a mettermi in contatto con Valeria Mosca di Wooding. L’anno scorso abbiamo preso la macchina e ci siamo recati al suo Food Lab. Adesso passa un paio di giorni al mese e una persona dello staff si occupa della raccolta per noi. Botaniche che arrivano in gran parte dal circondario, ma anche dal Delta del Po, nel caso del calamo, una radice agrumata, oppure dal resto del mondo. Sono microstagionali, cosicché il coordinamento è continuo per trovare eventuali sostituti. Un piatto può durare venti giorni oppure cambiare guarnizione”. E sono di stagione anche gli altri ingredienti, per il massimo del gusto: il pesce perlopiù sardo della pescheria Gallina, i bovini di Milanesio a Bra, gli ortaggi di diversi fornitori torinesi.
Confluiscono in una minuta composta di quattro proposte per tipologia, più due degustazione: uno di 7 corse dalla carta a 75 euro, l’altro di 11 a 110. Per accompagnarli la carta dei vini a cura di Mirco Feroce elenca 650 referenze, comprese etichette di nicchia, anche francesi, e biodinamici, con un’imprevista profondità in verticale. E sono allo studio miscelati. A guidare ottimamente la sala è invece Carlo Commesso con la sua professionalità discreta e puntuale. Spicca il pane, oggetto della consulenza di Massimiliano Prete: al pan focaccia integrale si affiancano pani da taglio di semola e di farro da pasta madre e lievitazione prolungata, pronti per il tuffo nell’olio Muraglia o nel burro di Normandia.
I Piatti
Puntuale, ficcante, sempre leggibile e concreta, eppure sorprendente, la cucina di Milani prende volentieri le mosse da ricette piemontesi. Vedi la finanziera di mare, icona dello chef dai tempi di Busca, con l’ostrica sulla classica miscellanea di rigaglie e frattaglie, senza sottaceti ma con un goccio di aceto di riso, per sostituire parzialmente l’acidità con lo iodio. Inserti di mare, inserti orientali, inserti selvaggi che variano un repertorio profondamente amato: la “fusion”, atipica, funziona.
Si comincia con il sushi croccante, variato nelle consistenze: una cialda di riso soffiato con mirin e aceto di riso, guarnita di guacamole, gambero rosso completo del suo cervello, uova di tobiko, lattuga di mare e zenzero candito.
Poi il primo classico piemontese: il sashimi di carne cruda, che Milani un tempo condiva con polvere di porcini essiccati, oggi con piantaggine, per la nota di boletus, e fungo di corteccia di betulla lattofermentato ed essiccato, grattato come fosse tartufo. “Un esempio chiarissimo di come utilizziamo il foraging”, per via di metafora.
Lost in New Jersey è un piatto nato da una disavventura: “Due anni fa ero in viaggio con mia moglie, la fotografa Alessandra Tinozzi. A Eleven Madison Park assaggiai una capasanta fortemente affumicata, il giorno dopo dovevamo partire ma perdemmo l’aereo per i Caraibi, così continuai a rimuginare su quel piatto in un albergo da aeroporto”. Lo sgombro viene glassato nel fondo di vitello infuso alle foglie di noce, che gli conferisce un inconfondibile naso di porcino alla brace, e servito con patata vitelotte al sale, spuma di aïoli e fumo di quercia sotto la cloche di vetro.
Colazione a Torino prende l’aereo di ritorno verso le forme conosciute: quindi il gianduiotto di foie gras in terrina con il croissant e la marmellata di cipolle, per festeggiare l’alba della lunga giornata torinese.
“Amo il quinto quarto”, confessa Milani. Ed ecco la lingua cotta a bassa temperatura con funghi orecchie di Giuda essiccati, dalle sembianze di alghe e dalla consistenza di cartilagine di pollo, ketchup di funghi shiitake, soia e fondo di vitello. Sotto il segno del foraging.
Oppure le animelle di agnello cotte nel loro fondo (ogni carne ha il suo) con gambero rosso e in abbinamento un kombucha, che sveglia il fantasma della finanziera con la sua acidità acetica, bilanciando la tendenza dolce.
Altro classico del territorio sono le lumache al verde, riviste con il bagnetto verde liofilizzato e la polvere di pangrattato, effetto gratin, più spuma di topinambur e scalogno marinato all’aceto.
Ma l’icona del ristorante è l’uovo d’oro di gallina livornese, cotto a bassa temperatura e servito su granella di pistacchi con burro al tartufo nero e caviale di tartufo, secondo due classici binomi. “Doveva rappresentare la mia richiesta di matrimonio ad Alessandra, da non replicare mai più. E invece…”
Sono ottimi i tagliolini al centrifugato di tartufo nero con burro di Normandia e alga ocean truffle delle Fær Øer essiccata, che ne ribadisce gli aromi. Mentre il riso Acquerello, cotto all’acqua e spinto dalla colatura, è servito con anguilla affumicata, polvere di caffè e capperi, in equilibrio grasso/tostato e in omaggio alle origini ferraresi della famiglia Milani.
L’agnello in due cotture con il suo jus e la composta di alchechengi è un divertente esperimento, che irride i testacoda della gastronomia. Il medesimo pezzo di carré, con e senza l’osso, viene sottoposto rispettivamente a cotture di 24 ore a 57 °C e 24 minuti a 78 °C: risulta in entrambi i casi rosato, con una testura classica o moderna. “La dimostrazione che il sottovuoto non è omologante”.
La pasticceria è opera di Federico Ciani. Dopo il predessert di gelato all’aglio nero con cioccolato e polvere di porcini, dove il bulbo fermentato funge da trait-d’union per le note caramellate e l’abbinamento al fungo, i fagioli cocco di Spello sono serviti sciroppati al timo con granita di caffè e spuma di patata dolce.
Quasi un’italianizzazione degli azuki giapponesi, con il caffè per la pulizia amara e acida sulla dolcezza e la farinosità, l’erba aromatica per il piacevole finale di bocca balsamico. E ancora lo studiatissimo gelato di crema al Pacojet e la piccola pasticceria: biscotto eporediese, stratificato agli agrumi, medaglione di fondente con viole e pinoli, tartufo con cioccolato bianco, cookies, savarin di pistacchio, fondo di cacao e gelée di lamponi.
Tutte le fotografie sono di Alessandra Tinozzi
Indirizzo
Ristorante Piano 35Corso Inghilterra 3 – Torino
Tel. +39 011 4387800
Mail: reservation@piano35.com
Il sito web del ristorante