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Meet in cucina 2017: l’Abruzzo che non si piega

di:
Alessandra Meldolesi
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meet in cucina copertina 970

Giunta alla sua terza edizione, Meet in cucina, il congresso organizzato da Massimo Di Cintio dedicato al meglio della ristorazione regionale abruzzese, ha visto alternarsi giovani promesse a mostri sacri come Niko Romito, Enrico Crippa e Mauro Colagreco.

L'Evento

Meet in cucina 2017: l’Abruzzo che non si piega


Non si ferma, non si piega l’Abruzzo a questo mensis horribilis. È stata brevemente in forse, la terza edizione di Meet in Cucina, congresso dedicato al meglio della ristorazione regionale, organizzato da Massimo Di Cintio presso la Camera di Commercio di Chieti.

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Ma la vita preme sotto la slavina. Sul palco mostri sacri alternati a giovani promesse, in platea tanti ragazzi e futuri cuochi. Quelli che probabilmente negli anni a venire saliranno i gradini sotto i riflettori, come è già successo quest’anno.

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Vuoi sfondare in cucina? Arruola un sous-chef abruzzese. Sembra questa l’ultima lezione della cucina italiana, se è vero che due mostri sacri come Massimo Bottura ed Enrico Crippa hanno scelto spalle quali Davide Di Fabio e Antonio Zaccardi. Secondi che sono già numeri uno. Zaccardi in particolare ha iniziato alla paletta di sapori e ingredienti abruzzesi un Crippa già incline alle contaminazioni, non solo orientali. Lo ha testimoniato il riso cotto in acqua di pomodoro e mantecato al lardo con paprica dolce, sorta di risotto alla amatriciana che fonde Abruzzo e Piemonte.

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Appena una pallottola nel consueto fuoco di fila della creatività. La merenda contadina è un antipasto in tre tempi composto di taco di farina di ceci, simil farinata; taco di lattuga con carne cruda e brodo. Si ispira alle merende improvvisate dai contadini che curano l’orto di Piazza Duomo, quando dopo qualche ora di lavoro scende in campo lo chef.

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Brace (A)mare è invece un baccalà alla brace scompaginato e squadernato, con il merluzzo fresco, pesce prediletto di Crippa, messo sotto sale e servito con cipolle bruciate, nel ricordo della cucina classica, cicoria e ricci in equilibrio sapido/amaro.

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Poi due dessert, passione di Zaccardi: Truffle Hunting, guscio di mela farcito con ricotta, mela e tartufo nero piemontese, e Vento di Langa, paesaggio commestibile ispirato alle vigne che trascolorano, composto di diversi cioccolati e nocciole, fra la Nutella e il Mars.

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È stato quindi il turno di Daniele D’Alberto del BR1 di Montesilvano, allievo di Vissani e Cedroni. I due poli opposti di una pila ben carica: da una parte sfarzo, lusso, abbondanza; dall’altra eleganza e tecnica. Sul palco ha portato un primo piatto, “odio il riso”, perché il risotto è il banco di prova di ogni cuoco. La partenza è un riso cotto con acqua di pomodoro e limone trasformato in farcia per tortelli, più marmellata e salsa di pomodoro, limone candito, pomodoro confit e chicchi di riso soffiato per variare un tris di ingredienti. Poi lo sgombro adriatico scottato in padella con ristretto di pompelmo, rapa rossa e olio al rosmarino.

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Cinzia Mancini della Bottega Culinaria Biologica di San Vito Chietino ha portato sul palco l’entusiasmo dell’autodidatta, passata per una carriera nella moda ma da vent’anni in cucina, anche in stage al fianco di Valeria Piccini. Ha esordito con un baccalà ai peperoni di nuovo conio, con la sfoglia di ortaggi della casa e il tè nero. Poi un prodotto del territorio: i fagioli di Paganica in forma di monografia sulla falsariga di una classica pasta e fagioli, con diversi brodi, il ricorso strategico alla fermentazione per l’umami, i fagioli ricostruiti e la pasta di farina di legumi denaturata in forno per ricostruire l’assente maglia glutinica.

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A seguire l’enfant prodige della nuova cucina abruzzese: Mattia Spadone, allievo di papà Marcello e sua maestà Joan Roca. Per cominciare ha presentato i cappelletti all’amatricina, con una ventricina alto vastese al posto del guanciale, il pecorino di Farindola e la maggiorana per rinfrescare. Poi il gallo nostrano, grande classico della Bandiera, allevato vicino al ristorante, con il petto al barbecue glassato alle erbe di montagna; la salsa distillata dal fondo di cottura insieme alle granaglie, pastura del volatile, vino bianco e genziana per la chiusura amara; i fegatini in forma di paté al burro su una carota cotta nel sale e soffiata. Perché del gallo non si butta via niente: il lusso della complicazione in una ricetta integrale.

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Il secondo ospite d’onore è stato Mauro Colagreco, argentino trapiantato a Menton, Costa Azzurra, con qualche ottavo di sangue abruzzese. “Torno quasi un secolo dopo a Guardiagrele, paese che il mio bisnonno Luigi si è lasciato alle spalle per l’ignoto. Un’emozione: sento che questa è la mia terra. E a Menton servo una cucina di frontiere e libertà”. Fra i piatti firma del Mirazur ci sono Ostrica e pere, dove il mollusco ben acidulato è “pacificato” dalla pera in diverse forme, e Naranjo en flor, dessert intitolato a un celebre tango, riprodotto con ingredienti abruzzesi nel matrimonio d’amore fra diversi sud: sul piatto latte di mandorle e mandorle, cialde all’arancia e arancia, mousseline allo zafferano dell’Aquila. Poi la barbabietola ciclopica di due anni, rimessa in terra dopo 2 mesi di cantina per un ulteriore ciclo. Le si rende onore con una cottura sotto sale, solitamente applicata a carni e pesci, e un semplice condimento di panna e caviale: piatto dell’anno secondo Massimo Bottura.

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Villa Maiella è il Pescatore abruzzese, per familiarità e radicamento nell’autoproduzione. Arcangelo Tinari, con il padre Peppino sullo sfondo, è partito dal maiale del suo allevamento, sottoponendo la pancetta sottovuoto a tre cotture ripetute per armonizzare polpa e grasso, poi tostandola in padella. In abbinamento serve un consommé di teste di gambero al limone. Poi le cozze con pecorino e cicoria, dove il formaggio è messo in infusione nel Bimby fino a ottenere un latticello, poi legato con il kuzu e modellato in forma di gnocchi; le cozze sono aperte sottovuoto; la cicoria saltata in purea e in punte crude riprende l’erbaceo del pascolo. La testimonianza di una transizione che si sta impennando verso l’alto nella tecnica e nel tasso creativo.

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A seguire un outsider: Gianni Dezio del Tosto di Atri, figlio di ristoratori italiani in Venezuela, che dopo la laurea si è formato alla scuola di Niko Romito, dove è risultato migliore allievo nel primo anno di apertura. Ha voluto omaggiare le sue origini attraverso un ceviche di baccalà, crudo e non eccessivamente ammollato, marinato sottovuoto in un leche de tigre agganciato alla ciaudella (panzanella abruzzese di sedano, cipolla, aglio, peperone, finocchio e succo di agrumi), con il pane casereccio ammollato nel latte di mandorle a stemperare l’aggressività: una passerella gettata fra territori lontani.  A seguire Terra dei calanchi, dessert ispirato al paesaggio di Atri. “Volevamo riproporre un ecosistema che ci aveva affascinato sul piatto. Offre tanto: capperi, liquirizia, betulla e sulla, erbe spontanee. La base è un crumble di terra di liquirizia, più sorbetto di rapa rossa e frutti rossi, per la nota terragna, l’acidità e il colore del nucleo incandescente, la crema inglese sifonata al miele di sulla, capperi, semi di finocchietto selvatico ed erbe spontanee”.

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Dopo l’allievo, il maestro: gran finale con Niko Romito, emozionato nel ritrovare Dezio sul palco. “E ce ne sono tanti che stanno investendo su un territorio come questo, difficile ma unico e meraviglioso, che già offre molto. Sento che sta arrivando una rivoluzione, anche se la macchina ha bisogno di autostrade, quindi di un progetto appoggiato dalle autorità che ci porti fuori dalle rotte del provincialismo. Identità, purezza, verità, cucina semplice come punto d’arrivo: sono questi i miei obiettivi, incarnati in un piatto come Verza e patate, che seduce il gourmet, ma non mette in soggezione nessuno.

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L’ho appena presentato a Madrid Fusion. Poi c’è il progetto Intelligenza nutrizionale, volto a riscrivere la ristorazione ospedaliera, dalla standardizzazione al controllo in uscita dei valori nutrizionali, a ingredienti e costi invariati. Abbiamo ottenuto risultati incredibili attraverso la tecnica, che vuol dire background gastronomico. Potremmo andare avanti per decenni solo nell’alleggerimento e ammodernamento del nostro patrimonio gastronomico, recuperando gli ingredienti poveri che abbiamo espunto, anche se io ho scelto un’altra strada: la creatività”.

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