All’hotel Principe di Forte dei Marmi la sorpresa di un giovane talento, che stende un velo estetico sopra le armonie illegali del gusto.
La Storia
La storia di Valentino Cassanelli
Cosa resterà degli anni zero? Il tormentone risuona per le cucine dei tanti giovani talenti, che stanno raccogliendo l’eredità di un’epoca ruggente. Anche a Forte dei Marmi, nel parallelepipedo total white dell’Hotel Principe, cinque stelle edificato sulla planimetria di un vecchio albergo nel 2010. Una scatola di luce infilzata dalla scala a ogiva, i cui gradini si arrestano al piano alto della terrazza. Dove il bar si protende verso i baldacchini in legno del bagno Dalmazia, di proprietà della struttura; mentre a guardare le Apuane sono i tavoli del ristorante gastronomico Lux Lucis, traslocati di recente dal piano terra, sede del generico ristorante d’albergo. Su un lato il box con la cucina per le finiture a vista, attraverso cui balenano i ricci castani di Valentino Cassanelli.
Anni zero perché è qui e ora che si misura la portata del putsch messo in opera a quei tempi. Se è vero, come ha scritto Ionesco, che l’avanguardia “potrà essere riconosciuta soltanto a posteriori, quando avrà sfondato, quando gli scrittori e gli artisti d’avanguardia saranno stati seguiti, quando avranno creato una scuola dominante, uno stile culturale che si sarà imposto e avrà conquistato un’epoca”; altrimenti verrà derubricata dagli storici a epifenomeno. Ed è quel che sta avvenendo per le mani di giovani e giovanissimi cuochi, che su quei concetti e quel coraggio stanno edificando, finalmente, una nuova cucina mai così italiana. Nomi come Gianluca Gorini, Oliver Piras e per l’appunto Valentino Cassanelli, all’opera per scuoterci con emozioni che sembravano perdute.
“Sono nato a Spilamberto, nel Modenese, in una famiglia senza addentellati nella ristorazione”, racconta Valentino. “Ma mi sono appassionato fin da quando preparavo da mangiare per i miei, al ritorno dal lavoro, e li vedevo emozionati. Per questo, e per la possibilità di viaggiare, mi sono iscritto all’Alberghiero di Serramazzoni. Dopo due anni spesi in un ristorante tradizionale, appena ricevuto il congedo sono partito per Londra, dove ero stato in stage con la scuola a 16 anni. Perché mi piacevano il dinamismo, l’indipendenza; ed era stato il mio primo viaggio da solo, quindi volevo ripartire da lì e dai contatti che avevo tenuto. Dapprima in un ristorante italiano di Mayfair, che ha rappresentato il debutto in una brigata numerosa e gerarchica; poi, visto che cercavo qualcosa di più, alla Locanda Locatelli. Folgorato da una cena, per la mediazione del pasticciere, sono finito per un altro anno da Nobu, dove lo chef era Hideki Maesa e il pasticciere David Muñoz, oggi tristellato al Diverxo. Un’esperienza che mi ha profondamente segnato, nel senso dello scavo nella tradizione volto alla personalizzazione e della rifondazione di piatti che restano sempre riconoscibili”.
“Sono tornato perché avevo voglia di casa e ho spedito il mio curriculum a Cracco, che conoscevo solo di nome. Matteo Baronetto mi ha risposto dopo un quarto d’ora e ho iniziato praticamente subito, in prestito per tre mesi da Berton, che mi ha insegnato il rigore e la precisione, dalle insalate al taglio delle ossa per i fondi. Matteo poi mi ha spalancato di fronte una prateria in cui spaziare, qualsiasi cosa avessi in mente. Il primo giorno sono stato messo alla pasta e di fronte ai ravioli di maionese alla salsa verde mi sono chiesto: mia nonna che direbbe? Il lavoro era tantissimo, perché il ristorante era pieno a pranzo e a cena, ma una volta finita la linea tutti potevano provare e proporre nuovi piatti. C’era molto spazio per la creatività; per esempio con Matteo abbiamo messo a punto i gamberi rossi marinati al Campari, l’insalata trasparente, i ravioli liquidi affumicati, con un ripieno variabile secondo la stagione, dalla zucca con i calamaretti crudi ai broccoli con l’uva”. Un training durissimo, ma anche la più grande scuola italiana di cucina astratta, emancipata dai vincoli della rivisitazione. Preziosa sotto il profilo tecnico e stilistico, dalle marinature, già esplorate da Nobu, all’osmosi sottovuoto di qualsiasi ingrediente.
Dopo due anni al Sangal di Venezia, dove propone una fusion originale insieme a un altro chef e al suo attuale secondo, Rocco Grisoni, Cracco indossa nuovamente i panni del deus ex machina: “In occasione di una cena mi parlò della sua consulenza a Forte dei Marmi e mi chiese di dargli una mano. Poi dopo due mesi mi chiamò dicendo che avevano bisogno di uno chef resident e avevano pensato a me”. Sul Lux Lucis, aperto nel maggio 2012, è carta bianca, con il solo obbligo di pareggiare il bilancio attraverso il concorso del ristorante d’albergo e del punto di ristoro del Dalmazia. La direttrice all’epoca è già Cristina Vascellari, ex hostess che ha creativamente messo a frutto l’esperienza acquisita nell’accoglienza di volo e negli hotel di tutto il mondo, fino a scalare l’organigramma della struttura.
Praticamente subito arriva anche Sokol Ndreko, sommelier trasvolato dall’Osteria del Mare, attento all’evoluzione di bottiglie spesso sacrificate anzitempo e propenso a enfatizzare le intemperanze culinarie col vino: sapido sul sapido, acido sull’acido, in cerca di un “mimetismo” che scongiuri il fatale abbinamento con l’acqua. Da un anno a questa parte c’è anche la mixology, per lo shaker di Roberto Simoni: “A parte rare eccezioni, i cocktail vengono serviti a integrazione di un piatto preesistente e messi a punto con un lavoro di squadra”.
I Piatti
La carta è bipartita: da una parte “La contemporaneità del territorio”, dedicata alla rilettura di specialità toscane; dall’altra “La contemporaneità della cucina”, con ricette a schema libero. Vengono assemblate in 3 menu degustazione di 5, 7 e 9 portate (rispettivamente a 60, 75 e 90 euro; più 35, 60 e 75 euro per gli eventuali abbinamenti). Il più esteso è organizzato a specchio, con due sequenze di antipasti, primi e secondi inizialmente di pesce, poi di carne.Dopo gli appetizer, che simulano un fondale marino con la razza tinta di blu per le onde, Uovo e uova, risveglio a primavera ingrana la marcia della provocazione con i suoi ingredienti aurorali. Lo compongono una quenelle di mozzarella di bufala fonduta a freddo, centrifugato di spinaci, spinaci marinati sottovuoto con acqua tonica, poi spruzzata in finitura sul piatto, gocce di tuorlo marinato al miso e caviale Beluga. Il gourmet ravviserà due esche per la memoria gustativa: l’associazione fra tuorlo e caviale, ancor più pregnante in uno stabilimento frequentato dalla comunità russa di Forte dei Marmi, e quella fra uova e spinaci, evocativa della Toscana per via della codificazione à la florentine. A straniarli il guizzo postmoderno dell’acqua tonica, già presente nelle dispense del Bulli, che con la sua carbonica leggera evoca l’aria frizzante. Come sempre in Cassanelli, è il gusto puro a imporsi: archiviati i meccanicismi dell’“equilibrio gustativo”, secondo un’operazione che può ricordare Lopriore, il baricentro è dislocato in un singolo sapore, nella fattispecie la sapidità, attorno alla quale si ricostruiscono i contrasti. Il dolce/amaro della tonica, l’umami del miso, la grassezza del tuorlo sul nucleo sfaccettato della mozzarella e del caviale.
Segue un piccolo classico del Lux Lucis: la triglia al pino marittimo con alghe e mare, non la prima interpretazione silvestre di un pesce, ma di certo la più riuscita. La sua chiave è la testura, altro talento di Cassanelli, visto che i filetti, notoriamente fragili, vengono marinati in sale e zucchero per 15 minuti, poi ulteriormente rassodati sottovuoto per mezz’ora con la resina di pino sciolta nell’olio; la cottura, a 42 °C, dura 35 minuti. Sul piatto con alghe, polvere di pinoli tostati e polvere di wakame: balsamico e umami, per un piatto che riassume il paesaggio stretto fra le Apuane e il mar Tirreno. Di territorio anziché di repertorio.
Gli gnocchi di patate e alici con infuso di capperi imboccano un altro filone avanguardista: la rilettura della tradizione non in chiave emendativa, cioè marchesiana, ma volta a enucleare la sua carica di ribellione, come un salto di tigre nel passato. Quindi gli ingredienti eidetici della mediterraneità: accanto agli gnocchi, a base di patate e fecola, acciughe e puntarelle per il croccante e per l’amaro, bagnate da un infuso di capperi preparato come un tè e profumato con una scorzetta di limone, che pian piano ammorbidisce il vegetale. Si crea così
uno stacco netto fra le aspettative rassicuranti e il gioco sapido-amaro, pulitissimo nel finale di bocca. Un’altra forzatura dell’equilibrio gustativo, frenata dalla liquidità quasi insapore.
Il gioco gustativo più audace è tuttavia quello della coda di rospo allo zafferano con gli asparagi, piatto praticamente privo di sale e di grassi che sulla carta non potrebbe mai funzionare. Lo sorregge il confronto fra due diverse acidità: l’asparago in osmosi di succo di yuzu, agrume acido e salato, spinto da soia e colatura, e l’agretto di aceto e zucchero in cui marina il pesce, tenacissimo sotto i denti, cotto poché e leggermente scottato sul lato di presentazione. Appena dolce, invece, la tapioca allo zafferano di San Miniato (riproposta come cialda secondo il topos del nascondimento), per un ulteriore effetto di frenata.
Più semplice l’insalatina di granchio con il suo midollo e il suo corallo, la cui dolcezza è equilibrata dalla spuma amarognola di erbe di campo, montata non con panna o gelatina, ma con il cervello del granchio stesso. Un ricordo dei ciocapiat della nonna; in questo caso bietolino, cicorino e tarassaco raccolti dal contadino. A portare il piatto in volo è il cocktail abbinato, composto di classica bisque, vodka e mirtillo schiacciato.
A inaugurare la sequenza di terra è la costoletta di maiale della macelleria Masoni, marinata e cotta sottovuoto nel latte, sul modello di una specialità di mamma Cassanelli. Viene servita disossata con la sua salsa gelificata e una carota marinata in mirin, salsa di soia, colatura di alici e pepe di Sichuan (retaggio della fusion londinese), la cui punta è cosparsa di cacao per evocare la geofagia. Anche qui un nascondimento, sotto la cialda di peau de lait essiccata che crea un velo estetico. E una tradizione riportata al suo stadio virginale, come da sempre agognano i poeti.
Lasciano il segno le linguine risottate su fondo di aglio e olio con centrifugato di zenzero, più poco Parmigiano in mantecatura. Dove il piccante si stempera nella grassezza sontuosa della testina preparata alla maniera della Locanda Locatelli, smontando la testa e ricavando cubi di lingua e guancia da cuocere nel fondo di vitello ristretto. Un piatto binario, influenzato da Baronetto nella giustapposizione di elementi eterogenei, che trovano un incastro gustativo, e nello straniamento dei richiami classici. L’idea di partenza era un aglio e olio di nuovo conio, lubrificato dalla carne; l’esito somiglia a un lampo di ironia sulle pâtes garniture dei Francesi. Più una spolverata di cacao quale trait-d’union con il piatto precedente.
A seguire il piccione toscano marinato nel succo di amarena, al riparo del suo jus per evitare che l’acidità alteri la struttura della carne; servito con barbabietola, una pralina di rigaglie glassata alla gelatina di amarena, crema di barbabietola e succo di amarena spruzzati sul piatto, una fettina di daikon che con la salsa rossa e lo yogurt crea un effetto psichedelico, simile alle immagini ottenute negli anni ’70 per mezzo di vetri e liquidi. Accanto la coscetta brasata con jus e remouillage opera una nuova rottura stilistica fra l’avanguardia e il classicismo, ben presente nel richiamo alla frutta che da sempre guarnisce il volatile e al rosso sangue che tipicamente gli si associa.
Dopo il refresh di lampone congelato con cremoso di basilico e infuso di finocchio, lime e menta, il dessert green power chiude il pasto entro parentesi verdi, perché la primavera, prima ancora dei fiori, è profumo di erba tagliata e clorofilla. Praticamente una monografia di piselli, volta a valorizzarne la dolcezza naturale: lo compongono cremoso e crumble di piselli, salsa di baccelli, un simil baccello a base di zucchero e fondente con polvere di buccia di piselli nonché i piselli stessi canditi; più la riduzione di liquirizia a ripulire il palato e un pezzo di ghiaccio all’anice per pungere la lingua.
Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi
Indirizzo
Ristorante Lux Lucis presso Hotel Principe Forte dei MarmiViale Amm. Morin 67 - 55042 Forte dei Marmi (LU)
Tel. +39 0584 783636
Mail: luxlucis@principefortedeimarmi.com
Il sito web del ristorante Lux Lucis