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Mibu: il ristorante più esclusivo del Giappone con 8 coperti e nessuno chef

di:
Alessandra Meldolesi
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L’esperienza è praticamente impossibile: sono 300 i soci che una volta al mese possono sedersi da Mibu a Tokyo, per officiare un rito zen che celebra la stagionalità perfetta.

La notizia

Chi non ricorda quando Michelin escluse dalla guida tutti i ristoranti giapponesi non prenotabili? È un fatto che nel paese del Sol Levante a tavola si celebrano riti esclusivi, le cui formule più spirituali che commerciali sfuggono alle categorie occidentali. Mibu, per esempio. Qualcuno ha parlato di non ristorante per definire questo locale, annoverato fra i più ambiti ed esclusivi del Giappone e raccontato dal documentario La Luna en un plato di Roger Zanuy, presentato all’ultima edizione del festival di San Sebastian.


Il luogo è un piccolo appartamento nel quartiere di Ginza a Tokyo, per il quale transitano 300 soci e qualche ospite eccellente. Per esempio, Joan Roca, che dopo l’esperienza ha commentato: “Non è un ristorante né un cuoco. È qualcosa di non convenzionale”. E Massimo Bottura, per il quale qualsiasi persona creativa ne resterebbe incantata. E ancora Andoni Luis Aduriz, con un linguaggio originale: “È un santuario ad alto tasso di porosità. La bellezza per la bellezza”. Ferran Adrià, dal canto suo, ha augurato buona fortuna al regista, perché Mibu è ineffabile, una magia che non si può raccontare.

Il proprietario di Mibu



Se si chiede una definizione ai titolari, Tomiko e Hiroyoshi Ishida, dopo essersi schermiti parleranno della “migliore società gastronomica giapponese”. “È un punto di incontro dove le persone hanno l’opportunità di sedersi attorno a un tavolo per esprimere i propri sentimenti, esporre problemi e ascoltare. Nessun’altra società potrebbe propiziare uno scambio simile. Più che un ristorante, Mibu è un gestore di relazioni umane”. Per accedervi non basta certo alzare una cornetta: i soci, tutti giapponesi, corrispondono una quota mensile, che dà loro diritto a una visita. Si tratta di accoliti da generazioni, amici di vecchia data e membri dell’alta società giapponese. Una chiusura ermetica, cui la coppia è arrivata per il desiderio di sublimazione dell’esperienza e quadratura perfetta fra cucina e anima.

 

Un piatto del ristorante Mibu



Di fatto non si tratta né di sushi né di cucina tradizionale giapponese, tantomeno di cucina d’autore. “Mibu cerca l’equilibrio fra modernità e tradizione. È il guardiano dei semi e dei piccoli produttori, il baluardo della memoria gastronomica”. Il punto di partenza non può che essere il buddhismo zen con la sua adesione rigorosa alla stagionalità, più che mai imprescindibile in questi tempi di cambiamenti climatici. “Anche in Giappone la cucina sta perdendo la sua anima”, dicono.


Il risultato è caotico. Se si ricercano solo l’avanguardia e la provocazione, perdiamo per strada molte cose che già c’erano ed entriamo in crisi. Cosa c’è di più provocatorio e avanguardista in cucina delle stagioni dell’anno per ogni prodotto? Da Mibu è un messaggio che vogliamo trasmettere ai giovani e alle generazioni future. Bisogna rispettare madre natura pregando le pietre, gli alberi, le piante, l’acqua e tutto il resto”. Vedi il signature che ha dato nome al documentario: una rondella di rapa tuffata nel dashi, che simula il riflesso della luna e ne celebra il culto.


Le regole non mancano. Ogni sera il frigorifero deve svuotarsi completamente. Se avanza qualcosa di fresco, verrà diviso fra gli otto commensali dei due tavoli. Ma non si tratta solo di no waste: in questo modo gli ospiti potranno condividere con i familiari un pezzetto di esperienza, compresi i bambini, formati in questo modo all’eventuale visita futura. “Da Mibu abbiamo soci di quarta generazione, che hanno condiviso un patrimonio culinario”.

Fonte: La Vanguardia

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