Dietro la svolta vegana di Daniel Humm c’è l’intervento di uno chef giapponese, fiero custode delle antiche tecniche di cucina shojin. La sua opinione? “Sarebbe servito un anno per cambiare menu. L’abbiamo fatto in 40 giorni”.
La notizia
Toshio Tanahashi è un maestro di shojin ryori, una delle cucine più antiche del Giappone. Addestrato dai monaci zen, è conosciuto come “lo chef che sussurra alle verdure”, grazie alla profonda conoscenza ed esperienza nel vegetarianismo, sviluppata in tempi non sospetti, ben prima che diventasse una moda. Era il lontano 1992 quando collaborò in veste di consulente all’apertura di Gesshinkyo, celebre ristorante di Tokyo dove si è fermato per tre lustri. Attività che attualmente porta avanti in giro per il mondo per diverse case, avvalendosi del suo braccio destro italiano, Andrea Cattaneo.La sua fama ha raggiunto fra gli altri l’acclamato chef Daniel Humm, convincendolo ad alzare la cornetta, una volta decisa la svolta green di Eleven Madison Park. Toshio si è così fermato a New York per 40 giorni, al fine di partecipare all’ideazione di piatti ispirati alla cucina shojin. È stato un comune amico ristoratore a metterli in contatto; l’intenzione iniziale di Humm era quella di recarsi in Giappone, ma nel febbraio 2020 il mondo era fermo per la corsa pandemica. Impossibile viaggiare. Allora è stato Toshio a fare le valigie.
La prima cosa che gli ha detto è che sarebbe stato necessario almeno un anno per capire a fondo questo tipo di cucina, nei suoi risvolti storici e spirituali. Un tempo giudicato troppo lungo, dato che il ristorante avrebbe riaperto in giugno. Non era facile riassumere una cultura millenaria in 40 giorni, ma la sfida è partita ed è probabile che l’esperienza verrà ripetuta, per bucare la superficie. Ma attenzione! Humm non ha mai detto che avrebbe proposto piatti shojin, piuttosto che si sarebbe ispirato a quella scuola.
Per prima cosa i due hanno acquistato cento chili di ingredienti e attrezzi tradizionali per compiere le prove. Gli chef del ristorante hanno tra l’altro visitato diversi negozi di prodotti giapponesi, per poi cercare equivalenti americani di quanto non fosse reperibile. Fra i principi dello shojin, infatti, c’è l’uso di ingredienti locali, che la brigata ha poi scovato nelle fattorie e presso piccoli fornitori artigianali. Quella di Toshio non è una cucina alla moda: la sua fonte primaria è il rispetto per le piante, il sentimento di obbligazione che nasce dalla profonda interdipendenza fra uomo e natura. Senza piante non ci sarebbe vita per l’uomo, tenuto a ringraziarle e onorarle nelle diverse stagioni. Qualcosa che va ben oltre il concetto di “plant based”, che riduce il vegetale a strumento per fini di dieta o sostenibilità, quando non risponde apertamente a strategie di business. Un’etichetta che Toshio rifiuta.
Ma che cos’è lo shojin? Di fatto si tratta di una cucina vegana, che rinuncia a qualsiasi ingrediente di origine animale, compresi uova e latticini, ma anche a ogni tipo di allium (aglio, cipolla, erba cipollina, porro e rakkyo). Le sue origini sono in Cina; poi nel XIII secolo un monaco zen chiamato Dogen lo portò in Giappone, adattandolo ai luoghi, al clima e agli ingredienti. Nelle tradizioni cinesi e taiwanesi possono darsi piatti che imitino la carne o il pesce, cosa che in Giappone non accade mai. Ed è una tradizione che non ha mancato di influenzare il più celebrato kaiseki, e attraverso di esso la nouvelle cuisine e la cucina fine dining, nella sua tensione all’alleggerimento e all’estetizzazione.
Secondo Toshio, tuttavia, la standardizzazione estetica del piatto non è un traguardo. Piuttosto la cucina buddista è dinamismo oltre le apparenze, significa “trovare la libertà in assenza di libertà”, facendo a meno degli ingredienti animali, per poi magari ritrovarli. Il focus è nel rispetto della natura, degli ingredienti e degli altri, contro l’egotismo rampante della cucina mediatica. Neppure riprodurre la carne attraverso i vegetali manifesta una forma di rispetto, altrimenti questi verrebbero approcciati come tali, nella loro integrità, anziché divenire strumenti di un business, che non agisce sull’immaginario.
E lo shojin vuole essere una cucina di tutti, anche a casa. “Penso che per le persone sia veramente semplice e facile avvicinarsi. La prima cosa da fare è buttare tutte le macchine presenti in cucina. Tornare alle origini. Lo shojin è nato oltre un millennio fa e le persone oggi stanno proseguendo questa tradizione. Ognuno dovrebbe essere in grado di farlo”. Tornare alle basi, riscoprire le cose semplici insieme alle proprie origini significa contribuire alla salute, all’ambiente, alla sostenibilità, alla consapevolezza, perfino all’armonia familiare. “Hai le verdure e il tuo coltello. Passa del tempo tenendoli in mano. Impara a cucinare e prepara tutti i tuoi piatti senza utensili inutili, solo i fondamentali. Sono le basi della cucina”.
Fonte: greenqueen.com
Foto di Daniel Humm: Crediti Eleven Madison Park