Alta cucina

Le muffe: la tendenza gastronomica del momento. Chi sono gli chef italiani e internazionali che le usano e perchè

di:
Alessandra Meldolesi
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le muffe copertina

È il nuovo topos avanguardista: emotivamente disturbante, visivamente a effetto, ricchissimo sotto il profilo dell’evoluzione organolettica. Un terreno di coltura per la creatività che va colonizzando l’alta cucina.

La Notizia

Nel vino è una vecchia conoscenza, come nella casearia: da secoli la botrytis cinerea, o muffa nobile, viene sfruttata nella produzione di nettari pregiati come il Sauternes, mentre i penicillium roqueforti e camemberti rientrano nella produzione di formaggi erborinati o a crosta fiorita, al fine di ampliarne lo spettro organolettico.

La novità è che questi funghi benefici hanno iniziato a colonizzare la cucina di ricerca, con il concorso di qualche new entry biologicamente incontenibile come gli aspergillus, cui va ricondotto il koji (o aspergillus oryzae), muffa dell’orzo utilizzata in Giappone per produrre miso e sakè. La loro azione consiste nel riprodursi per mezzo di spore, rivestendo le superfici con una massa di filamenti intrecciati, simili alla pelliccia (in germanico quella del manicotto era chiamata muff) cui devono il loro nome. A fare il punto ottimamente sul Gambero Rosso è stata Pina Sozio in una lunga e dettagliata rassegna.


Era il 2014 quando Andoni Luis Aduriz, forse il cuoco più avanzato del mondo, ebbe per primo l’idea di utilizzarli in cucina. Si trattava per la precisione del Pan azul, pan brioche inoculato di penicillium roqueforti, fino a inglobare in se stesso il companatico. Da allora quelle spore non hanno smesso di colonizzare la cucina del Mugaritz, estendendosi ad altri templi della gastronomia mondiale.


Nel 2017 a Errenteria è stata la volta di Podredumbres nobles (muffa nobile), una mela destinata a creare non meno scompiglio di altri celebri pomi. Dietro l’apparenza respingente di un frutto andato a male, inconciliabile con l’immaginario di un due stelle Michelin, c’era una polpa deliziosa farcita di arancia e inoculata con entrambi i penicillium del formaggio, roqueforti e camemberti, fino ricoprirsi di un fitto velluto bianco e verde, da assaporare con un calice di muffato. Un anno dopo alla microflora del Mugaritz si aggiungeva un altro fungo, il penicillium nalgiovense, quello dei salumi, utilizzato sulla pelle di un lombo di vitello.


In Italia sono tre gli chef che più di tutti si sono cimentati con questo genere di trasformazioni della materia. Il solito Terry Giacomello, prima con la mela cotta nella calce viva, infusionata nel lattosio e inoculata di penicillium camemberti, farcita infine di mela verde al cardamomo e bergamotto; poi con il delizioso Limone dimenticato, sbianchito e candito nello sciroppo, spennellato di penicillium roqueforti sciolto nel latte e lasciato ammuffire, farcito infine di spuma al limone bruciato. Tanto che l’esito rammenta una classica delizia amalfitana, con la scorza convertita in biscotto leggermente piccante. Ma attenzione, sebbene Giacomello sia passato dal Mugaritz, rivendica l’originalità della sua ricerca: “Ci lavoro dal 2011, quando alla Siriola feci un’indivia belga laccata alla soia, usando pelle di latte e clorofilla di spinaci. Perché è di lattosio che si ciba il penicillium. Poi nel 2014, durante uno stage al Mugaritz, mi sono ritrovato fra le mani il famoso dolce di mela ed è stato buffo constatare, che eravamo arrivati allo stesso risultato in modo differente. Giunto a Inkiostro, ho chiesto a uno dei ragazzi di Andoni il permesso di mettere in carta la mela. ‘Non farti problemi’, mi è stato risposto. ‘Sei stato qui, è anche tua’. Ma come già per l’omaggio a elBulli, ho voluto fare una dedica esplicita al Mugaritz. Per quanto la ricetta sia un po’ diversa: loro usano due muffe e non una, la mia farcia è di mela verde, non di arancia. È successo poi che qualche tempo fa, mi è tornato in mente quando da ragazzino avevo trovato un limone ammuffito in frigorifero e ho voluto indagare. Mi è stato detto che si trattava di penicillium, lo stesso del roquefort e degli erborinati in genere. Voilà”.


Poi c’è Giuliano Baldessari, che ha iniziato a esplorare i piaceri del putrido nel 2016. Il koji gli serve per un miso di pasta, con cui condisce una pasta elevata a potenza; mentre l’aspergillus interviene nella preparazione di un controfiletto di fassona rivestito di muffa al penicillium candidum. “Tutto è nato ascoltando una canzone di Vasco Rossi, Vivere senza te: ‘Quello che non si deve… lo fai’, recita, per esempio guardare un’altra quando sei con la tua lei, oppure dormire fino alle 10 quando l’agenda segna un appuntamento alle 7. Un inno alla trasgressione, e quindi alla necessità delle regole, che ne sono il presupposto in grado di scatenare la libidine. Proprio perché è il colmo per un cuoco, ho sentito la necessità di trasgredire, facendo ammuffire un pezzo di carne. Cosa che all’inizio non mi era ben chiara. C’è voluto un paio di mesi per trovare la quadra: 4 settimane a 20 °C. Poi ho fatto io stesso da cavia, per verificare che il risultato non fosse nocivo, e mi sono affidato a un’azienda che effettua test batteriologici, a garanzia di una sicurezza totale. L’effetto non è quello di una classica frollatura, perché il PH si abbassa e non consente ai microrganismi patogeni di formarsi; anche la temperatura è diversa. Alla fine sembra quasi un brie, ma sotto la crosta la consistenza è quella di un salume, tipo bresaola. E probabilmente non abbiamo scoperto niente di nuovo: sembra la muffa dei salumi di una volta. Il tempo di maturazione porta a esiti molti diversi. Mi piace in particolare quando la carne sviluppa un gusto di ammoniaca, come fanno le croste fiorite francesi. Ma non escludo sviluppi. Stiamo già sperimentando su pesci, vegetali e carni di altro tipo; sto anche facendo confezionare un’anfora per la fermentazione sotto terra, con le energie del terreno. Direi anzi che ho un sogno, per quanto inconfessabile: abolire i frigoriferi e conservare tutto lì dentro, in giardino”. Un’elaborazione che viola le regole che presiedono alla valorizzazione di una carne pregiata, servita freschissima oppure frollata, alla ricerca di una nuova frontiera del gusto. E che genera emozioni in chi siede a tavola, anche per i risvolti psicologici del caso, nel senso dell’ambivalenza e del risveglio delle difese ataviche funzionali alla sopravvivenza, che favoriscono più acute percezioni.


Bad Schoergau - la fuga



C’è infine Mattia Baroni dell’Alpes di Bad Schörgau, vicino a Bolzano, che predilige il koji, spesso applicato in chiave di cucina circolare, ossia antispreco, a preparazioni ataviche, in un’ottica di benessere che privilegia gli alimenti probiotici. “Attraverso lo studio e la sperimentazione, abbiamo abbandonato la ricerca di abbinamenti e contrasti, per dare spazio allo sviluppo di nuovi prodotti che fossero in grado di raccontare la vera anima delle materie prime. Vogliamo enfatizzare ogni aspetto, compresi i difetti intesi come segni identitari. In questa chiave utilizziamo le muffe per creare enzimi, utili per esaltare il gusto. Ultimamente abbiamo messo a punto fast salami, prosciutti che finalizziamo in un paio di mesi attraverso marinatura nel garum e sviluppo della muffa in superficie, più l’essiccazione rapida in cella. Il risultato finale in termini di umami è quello di una lunga stagionatura. Oppure il Cotton Steak, nato dal desiderio di ottenere una carne dal sapore analogo a un dry age di 90 giorni, ma succosa come se non fosse frollata. A questo scopo l’entrecôte viene spennellata di garum di manzo e inoculata con un ceppo specifico di aspergillus oryzae. In 12-15 ore a temperatura controllata la muffa crea un micelio candido simile a un batuffolo di cotone, da cui il nome. Contiene i classici sentori di erborinato e nocciola delle carni lungamente frollate, con enzimi dal sapore di culatello”.


Mentre all’estero proseguono le ricerche di Rodolfo Guzman, che ha messo a punto un pomodoro-formaggio, un’anatra al koji e una chirimoya muffata, in cerca dell’umami generato dalla proteolisi della polpa; insieme alle sperimentazioni di René Redzepi, che al Noma ci lavora da sei anni. Prima c’è stata la ricerca sul koji, la muffa dei cereali cotti, utilizzata come condimento; poi è venuto il turno dell’aspergillus, inoculato nell’asparago, nel taco e in una mold pie. Ma sono in corso sperimentazioni sui lieviti di birra, l’aspergillus glaucus e il fungo monascus, che producono esiti amari. I benefici sono molteplici: per la conservazione, la complessificazione aromatica, la testura vellutata.

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