Attualità enogastronomica

Disfatta italiana alla 50 Best: cosa non funziona nel nostro sistema?

di:
Paolo Vizzari
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Un’attenta analisi di Paolo Vizzari sull’ultima discussa edizione dei 50 Best. Una classifica in grado di centuplicare i flussi di turismo trasformando in destinazioni anche luoghi improbabili rispetto all’immaginario gastronomico medio.

L'inchiesta

Si stanno ormai posando le polveri alzate dall’edizione 2019 dei The World’s 50 Best Restaurants a Singapore, ma ancora non sembrano accennare a fermarsi le ondate di commenti o polemiche da essa sollevate, soprattutto in casa nostra.

Il dato oggettivo da registrare, e ci vuole un certo coraggio per sostenere il contrario, è che l’Italia ha peggiorato in modo sensibile il proprio posizionamento, passando dall’avere 4 ristoranti ben piazzati tra i primi 50 l’anno scorso (Bottura primo, Crippa sedicesimo, Alajmo alla 23 e Romito alla 36), alle sole due insegne presenti nella lista di quest’anno.


Se Bottura è uscito perché inserito nel nuovo Olimpo della Best of the Best riservato ai vincitori delle passate edizioni, gli scalini persi dagli altri sono invece rispettivamente 13 (Piazza Duomo), 8 (Calandre) e 15 (Reale). Parziale consolazione arriva dagli ingressi di 3 nuovi ristoranti nella seconda parte della classifica, quest’anno allargata per abbracciare fino a 120 nomi così da celebrare il 120simo compleanno di San Pellegrino (e anche su questo non sono mancate le prevedibili polemiche circa uno sponsor col potere di cambiare struttura e meccanismi della lista).

Foto di Barbara Santoro



Foto di Lido Vannucchi




Dalla posizione 61 di Uliassi, al Lido 84 dei fratelli Camanini 78° e vincitore del premio “One to Watch”, fino al 116° posto occupato dal St. Hubertus di Norbert Niederkofler (che con grande ironia, durante la cerimonia commentava: “Meno male che San Pellegrino non ha compiuto solo 115 anni”). Tuttavia, le posizioni in grado di cambiare la percezione o addirittura l’economia turistica di una nazione (citofonare Danimarca o Perù) sono ovviamente quelle in alto, che l’Italia orfana di Bottura non ha nemmeno avvicinato.


Ma quali sono le cause di una simile débâcle? Vanno ascritte a cuochi e ristoratori nostrani, diventati brocchi all’improvviso? Oppure a delle dinamiche di lobby come suggeriscono gli amanti dei complotti? La verità è che in Italia si sa poco o nulla della 50 Best, e negli ultimi giorni si sono sprecate le teorie più fantasiose nel tentativo di spiegare quanto accaduto.

Innanzitutto è bene partire da un concetto chiave: nel momento in cui si raccolgono i pareri di 1040 votanti da 25 aree geografiche (il Centro America o la Scandinavia sono blocchi di più nazioni), si crea una tale commistione di culture e abitudini differenti da leggere come un sondaggio di popolarità e non come una classifica da prendere alla lettera. Ogni votante può esprimere fino a 10 preferenze di cui al massimo 6 nella sua area di provenienza, e il panel di votanti viene deciso e gestito da un coordinatore detto “chairman” (per l’Italia Eleonora Cozzella).


È poco logico pensare che gli sponsor influenzino in qualche modo il voto, semplicemente perché ai brand interessa creare attenzione mediatica in assoluto, che poi vinca uno o l’altro non fa per loro differenza.

E allora che cosa non ha funzionato per la compagine italiana? La lettura di chi scrive è che si tratti una mancanza di dialogo con le altre nazioni, dovuta al collasso di un sistema editoriale ormai incapace di sostenere i costi necessari ai propri autori per visitare il resto del mondo. A essa vanno aggiunte delle politiche di promozione turistica troppo abituate a sottovalutare il peso dell’alta gastronomia.


Se un articolo viene pagato poche decine d’euro, non c’è da stupirsi che i media italiani non frequentino con regolarità ristoranti come il Central di Lima o il Noma di Copenaghen, dove al di là dei 2-300 euro (più vini) necessari per la cena, bisogna mettere in conto viaggi costosi e spese accessorie.


Il 99% dei pochissimi italiani che vengono a mangiare da noi sono cuochi”, dicono sia Björn Frantzén (tre stelle svedese entrato dritto come 21simo a un anno dall’apertura), sia Alain Passard dell’Arpège (ottavo posto e “Chef’s Choice Award” per lui). Questo fa sì che le nostre voci non vengano prese sul serio quando promuovono i locali di casa, perché nel panorama internazionale è difficile godere di credibilità se non si è mai stati da chi universalmente riconosciuto come un campione (Celler de Can Roca, Extebarri, Geranium, Mugaritz, Pujol...).

D’altronde, la facile accusa mossa al movimento italiano è quella di riferirsi a sé stesso senza confrontarsi con i parametri del resto del mondo, che di sicuro non ha alcun istinto a incensarci senza ricevere la minima dimostrazione d’interesse in cambio.

Per certi versi è vero che si tratta di una partita politica, ma in cui ogni Paese ha le stesse possibilità di partenza e non esistono intromissioni atte a favorire una zona rispetto all’altra. I chairmen possono organizzare eventi o aiutare il proprio movimento nazionale fornendo contatti preziosi, in una sorta di campagna elettorale no profit che mira unicamente al bene del sistema locale.


Sono stato nel panel per due anni dal 2015 al 2017, e nessuno mi ha mai obbligato a votare per qualcuno in particolare, ricevevo solo una telefonata all’anno da Eleonora in cui mi suggeriva come sarebbe stato sensato allineare i voti in modo da aumentare le possibilità di arrivare a un qualche risultato.

Personalmente mi sono trovato di rado d’accordo con la linea indicata (adoro Valeria Piccini e la trovo una cuoca fenomenale, ma purtroppo bisogna anche tener presente che per far vincere un premio a qualcuno è necessario votare chi abbia già un buon pool di voti provenienti dall’estero, come il Lido 84 quest’anno, altrimenti si finisce solo con lo sprecare la propria preferenza dietro una certa ingenuità provinciale e campanilista), e ho entrambe le volte votato in totale libertà fino al giorno della mia rimozione dal panel.


La responsabilità dei cuochi è dunque molto relativa, e Niko Romito non ha tutti i torti quando sottolinea come chi rimanga in cucina per migliorare non possa che perdere posizioni (vero anche che avrebbe potuto scegliere un timing diverso rispetto al primo anno di esclusione, ma si tratta di un peccato veniale da cui non bisogna farsi distrarre rispetto al problema sollevato).

Il chairman del Sud-Est Asiatico Litti Kewkacha (un giovane e illuminato imprenditore proprietario di alcuni parchi a tema e decine di pasticcerie in Tailandia, perennemente in viaggio per mangiare in ogni angolo di mondo), dopo aver appreso dell’esclusione di Romito si è detto incredulo. “Per me è inspiegabile, sono stato da lui poche settimane fa e l’ho trovato formidabile, con uno stile unico e personale. Penso che il suo lavoro meriti un’attenzione diversa.”

Dovrebbe essere il “sistema” a costruire occasioni sane per attrarre cuochi e giornalisti stranieri così da far conoscere meglio le realtà italiane, lasciando agli chef la possibilità di concentrarsi solo sul proprio lavoro. Come per la nazionale di calcio del 2006 che ha illuso un movimento calcistico italiano stanco nascondendo i problemi sotto al tappeto (salvo poi ritrovarseli moltiplicati nel decennio a seguire), così le vittorie ripetute di Massimo Bottura e della sua squadra ci hanno fatto credere per qualche anno di avere più voce in capitolo di quanto non fosse vero.


Bottura è un genio riconosciuto universalmente, con un magnetismo mediatico che lo rende perfetto per una battaglia del genere, ma nemmeno lui può caricarsi sulle spalle un’intera nazione cambiandone l’immagine percepita senza che ci siano altri interlocutori seduti al tavolo dell’alta cucina mondiale. Ha costruito la sua fortuna con tempo e fatica, rimbalzando per anni senza sosta così da riportare a Modena tutto quello che poteva. Fuori lui, le nostre braghe di tela sono tornate a farsi vedere.

Ma tutto questo serve a qualcosa? Vale davvero la pena di lasciarsi preoccupare dai risultati di questo “giochino”? Assolutamente sì, considerando che si tratta di un “giochino” in grado di centuplicare i flussi di turismo trasformando in destinazioni anche luoghi improbabili rispetto all’immaginario gastronomico medio (il nord estremo della Svezia, il Cile, la già citata Danimarca, la Tailandia...), o di dare ulteriore slancio a culture già forti come la nostra.


Alla nazione ospitante l’annuale cerimonia di premiazione viene richiesto un investimento sopra il milione di euro, ripagato però dall’arrivo simultaneo delle migliaia di persone che compongono il gotha mondiale di questo settore, con copertura internazionale assoluta e la possibilità di organizzare piccoli tour collaterali a scopo di promozione.

L’ente del turismo australiano, organizzatore nel 2017, ha più volte ribadito come sia stata una scelta che rifarebbe cento volte, con un ritorno sull’investimento molto sopra la media.

In quell’occasione, nell’anno dopo la cerimonia del 2016 a New York che vide trionfare Massimo Bottura per la prima volta, vinse poi non tanto casualmente Daniel Humm dell’Eleven Madison Park di Manhattan, visitato da centinaia di votanti nei giorni precedenti la premiazione. Allo stesso modo Bilbao e i Paesi Baschi, sede della scorsa edizione nel giugno 2018, quest’anno si sono visti riconoscere una crescita enorme portando il bottino spagnolo totale a 13 (di cui 7 tra i 50 e 3 nei primi dieci). L’Australia ha avuto copertura stampa ma non crescita in classifica perché la sua ristorazione è troppo acerba per poter ambire a qualcosa di diverso, il País Vasco invece ha potuto valorizzare una batteria di cuochi oggettivamente tra le migliori al mondo.


Ricollegandosi alla questione tirata in ballo da Romito, Victor Arguinzoniz del ristorante Extebarri non ha un ufficio stampa e nemmeno parla inglese, ciononostante si è appena piazzato in terza posizione perché chiunque sia stato da lui ha potuto rendersi conto di come sia semplicemente un mostro di bravura, e portargli la manifestazione vicino a casa ha fatto sì che in molti potessero andare a trovarlo (non partecipa a eventi e parla malvolentieri in pubblico).


Il mio parere personale da persona che ha provato e apprezzato praticamente tutti i ristoranti della lista (45 dei 50 e 98 dei 120 totali), è che l’Italia meriti una considerazione molto diversa di quella dipinta dai risultati raccolti, e con tutto il rispetto per le altre 31 nazioni che piazzano almeno un locale in classifica, trovo il risultato di quest’anno poco veritiero rispetto alla grande crescita di livello riscontrabile nell’alta cucina italiana.

Non siamo solo il Paese delle trattorie, e ritengo lecito giudicare deludente un bottino inferiore a quelli di Russia o Messico, non perché loro meriterebbero di meno ma perché noi meriteremmo ben di più.

Purtroppo però non esiste grande margine per addossare le colpe alla 50 Best o ai suoi sponsor, dovremmo trovare il coraggio di guardarci allo specchio e renderci conto che i campionati del mondo non si vincono mai per caso.

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