Le molteplici sfumature di uno dei prodotti più noti della Food Valley
Identità
Con un’identità di marchio
così forte è certamente ridondante raccontare ancora una volta con un dettaglio pedissequo quali siano le caratteristiche produttive di un prodotto come il Parmigiano Reggiano, il cui Consorzio con la presidenza di Nicola Bertinelli ha dato una svolta sia in termini di immagine sia in quanto a dinamismo. Un nome che è “sinonimo di sicurezza, valori, di una comunità forte” come ci racconta Simone Ficarelli dell’ufficio marketing Italia, la cui grande professionalità è cresciuta dentro il Consorzio che ha sede a Reggio Emilia. Capita che la stessa identità, in veri e propri campi di battaglia come lo scaffale del supermercato o la ristorazione, venga messa a dura prova e rischi di disperdersi in mille rivoli. “Innanzitutto – ci spiega Simone – va fatta una premessa: se vai a vedere su Ipsos quali sono i marchi più influenti, si tratta di brand tutti relativamente nuovi come Amazon, Apple, Facebook. L’unico prodotto che ha un’antecedenza forte siamo noi, quindi dobbiamo partire dal presupposto che il Parmigiano Reggiano non nasce con l’idea di imporre un marchio, ma con i monaci che nel XII secolo avevano l’esigenza di conservare il formaggio il più a lungo possibile.
Poi, va ricordato che l’unico prodotto food nella lista dei primi 15 è Nutella (neanche la stessa Ferrero) che ci precede immediatamente al 12° posto. Succede che come tutte le cose e le persone che conosci da tanto tempo, a volte da un certo punto di vista le dai quasi per scontate. Un marchio collettivo molto forte e questa grande familiarità col prodotto fanno sì che in un certo modo ne venga cannibalizzata l’idea, l’identità del singolo produttore e diciamo anche il mosaico produttivo che ci sta dietro”. Quel che accade quindi è che il Parmigiano Reggiano viene identificato come un prodotto monolitico e non come quello che è, ovvero il frutto del lavoro di una moltitudine di produttori. Qui c’è una grande differenza con il mondo del vino, nel quale è molto chiaro che per esempio il Barolo è l’espressione di tanti vignaioli. Così, continua Ficarelli “se pensi che siamo considerati lo Champagne dei formaggi, se chiedi a un americano o a un tedesco oppure anche a un nostro connazionale di indicarti il nome di una maison partono immediatamente con la lista, se invece provi a farti dare il nome di un caseificio che fa Parmigiano Reggiano non ne hanno idea! Mediamente una dozzina di volte all’anno ricevo visite di appassionati, turisti o figure gastronomiche che fanno il giro d’Italia. L’ultima volta è capitato con una coppia di polacchi in viaggio di nozze: sono venuti qui al Consorzio convinti di poter visitare la fabbrica del Parmigiano, sicuri che lo facessimo qui”. Quindi siamo di fronte a un paradosso, perché se moltiplichiamo i 335 caseifici produttori per le 30 forme al giorno che producono e per i 365 giorni all’anno che lavorano, otteniamo 3 milioni e 600mila forme. Numeri importanti, quindi, che nel momento in cui ci si ferma al marchio non danno l’idea della frammentazione, dei 3000 allevatori che conferiscono il latte a tutti quei 335 produttori. “Ho iniziato a lavorare qui nel 1995 e alle fiere limavamo il numero di matricola della forma perché, dicevamo, questo è lo stand del Consorzio, questo è Parmigiano Reggiano DOP e incarna dal primo all’ultimo caseificio. Ventitré anni dopo, al Cibus, nella stessa area in cui la matricola veniva cancellata, c’erano otto diversi caseifici che ruotavano ogni giorno.
Quindi la strada sul discorso dell’identità è di seguire le orme del mondo del vino. Ovvero non dobbiamo limitarci a dire Parmigiano Reggiano, ma è importante specificare che si tratta di formaggio del tal caseificio, stagionato per tanti mesi. Così come Consorzio stiamo perseguendo la strada della formazione dedicata soprattutto ai ristoratori.” Diventa quindi fondamentale il lato dell’analisi sensoriale, va capito che se esistono produttori differenti, diverse stagionature e diverse fasi dell’anno in cui si produce, con caratteristiche e prezzi estremamente differenti tra loro. “Il problema è che se entriamo in un qualsiasi supermercato e cerchiamo una bottiglia di vino le differenze sono chiare, anche come layout. Se andiamo al banco dei formaggi, il prodotto più industriale, quanto di più antitetico al nostro concetto produttivo, è esattamente confezionato e disposto come il Parmigiano Reggiano che è il prodotto più artigianale e naturale in assoluto! E poi, spesso, anche al ristorante, le referenze sono minime. Trovi un 24 mesi ruffiano e un po’ piatto e accontenti tutti. E la confusione regna sovrana, tanto che ho sentito dire “compro solo matricole a 3 cifre perché indicano il migliore in assoluto…Invece, semplicemente indicano che la produzione è in provincia di Reggio Emilia, la prima a dotarsi di questo tipo di codifica, mentre le altre zone ne hanno 4. Ci troviamo spesso a cozzare con le false credenze, difficilissime da disinnescare.”
Questo è un formaggio vivo, che parla davvero dell’espressione dei territori. “Dico sempre che siamo in una zona di 10 mila chilometri quadrati, molto piccola ma altrettanto variegata. Se prendi Parma e Polesine Parmense fai il culatello, perché hai bisogno di nebbia e umidità, mentre a Langhirano hai un contesto completamente diverso e trovi un prosciutto totalmente differente. Il Parmigiano noi lo produciamo sia qui sia lì, puoi immaginare!”. Si parla quindi di foraggi, biodiversità e flora batterica lattica che cambiano in modo importante da un territorio all’altro. “Ci capita spesso di dare a Massimo Bottura il formaggio quando va all’estero: è andato in Australia e ha incontrato uno chef che usava una stagionatura di 12 mesi, perché era l’unico che arrivava lì. Quando Massimo gli ha portato altre stagionature in assaggio è impazzito, tanto che adesso usa una teca di cristallo per tenere le forme di Parmigiano. Questa è una delle cose che cerchiamo di ottenere, la trasmissione della conoscenza”. Un altro dei grandi paradossi legati a questo mondo è che tra i professionisti esiste chi si fida del marchio e si accontenta di un prodotto a basso prezzo e chi invece chi vuole il dettaglio di ogni singolo particolare produttivo. “Il range è mostruoso, il problema è sempre la confusione, perché c’è anche chi confonde la presenza della tirosina (i granellini bianchi) con un difetto. È come se uno, per tornare al paragone con il vino, qualcuno riuscisse a venderti l’idea che per essere pregiato deve sapere di tappo. Siamo a questo punto, la forza di un prodotto tipico è proporzionale alla conoscenza che si ha dello stesso, altrimenti rimane sempre e solo il più costoso.
Riconoscibilità
Ma come si articola la riconoscibilità di un prodotto come il Parmigiano Reggiano? Al centro della scena ci sono i batteri lattici, i veri protagonisti. Sono presenti ovunque: sul foraggio, sul terreno, nella stalla, sugli animali, addirittura su di noi. Il grande spartiacque si trova comunque tra un formaggio a latte crudo e uno a latte pastorizzato. “Crudo significa che nel latte hai batteri, i quali ovviamente raggiungono il latte tramite l’alimentazione delle bovine, che ti parlano del territorio. Nel nostro caso partiamo dai formaggi che possono essere usati verdi o essiccati; c’è inoltre un’integrazione di cereali, ma non dà tipologia. Esistono due tipi di batteri, i termofili che sono i primi a essere attivati e che il casaro mette in caldaia quando aggiunge il siero innesto, di fatto sono gli starter. Essi hanno un’attività metabolica importante, acidificano il latte e trasformano tutto lo zucchero in lattosio e vanno a eliminare il rischio di fermentazioni non lattiche che sono quelle che non potremmo governare, perché non usiamo additivi. Ci sono poi i batteri mesofili, tipici del territorio e già presenti nel latte. Il problema, da una ventina d’anni a questa parte, è che le stalle ormai sono talmente asettiche che questi batteri fanno fatica a vivere. Se hai un caseificio nuovo nei primi mesi il formaggio non verrà così bene perché in quel momento non hai batteri lattici. In quel caso il casaro prende il siero innesto e a forza di secchiate “contamina” tutto l’ambiente per renderlo vitale. Per di più i batteri lattici di un territorio tendono ad adeguarsi, per cui, parlando di sieri innesto, ne avremo uno che prevale su un altro, così i caseifici se li scambiano per rinverdire l’attività batterico-lattica. Da più lontano arrivano i sieri, meglio è.” Per quanto concerne invece l’identità organolettica di una forma, a seconda di come i batteri si sviluppino o meno, attacchino o meno le proteine, si avrà un profumo, un colore e una struttura. “Se per esempio si sente la noce, i batteri avranno lavorato in un certo modo, se invece arriva una nota di pepe, allora un’altra sarà stata la sua azione. Se il formaggio è amaro, vuol dire che il processo metabolico della scomposizione tra proteine e aminoacidi è rimasto a metà ed è colpa dei peptoni.” Piuttosto sconcertante è invece il fatto che i fermenti selezionati nel 99% dei casi vengano comperati dai grandi produttori di formaggi da due o tre multinazionali che vendono batteri che donano esattamente gusto, colore e struttura desiderati. Così possiamo leggere dalla pubblicità online di due aziende che producono fermenti, citate nel sito di Slow Food-Resistenza Casearia: "Chr. Hansen propone 8 linee di colture di alta qualità per caseifici, riuscendo a coprire ogni tipologia di formaggio: paste molli, feta, semi-cotti, cottage-cheese, cheddar, paste filate, emmenthal e paste dure (...) Siamo in grado di coprire l'intero spettro di colori: per il settore lattiero-caseario in particolare offriamo soluzioni coloranti con sfumature che vanno dal giallo all'arancio per i formaggi, e colori che trasmettono visivamente l'aroma di frutta fresca per gli yogurt e i latti fermentati. (...) La nostra gamma di aromi aiuta i produttori a personalizzare i propri prodotti caseari, per contraddistinguere e rendere uniche le caratteristiche del loro marchio". Nel caso di un altro big player: "Amaltea è specializzata nel trasferimento su scala industriale delle tecnologie artigianali dei formaggi italiani. Con l'utilizzo di fermenti lattici selezionati direttamente dai formaggi tipici, riprodotti in laboratorio ed in seguito liofilizzati, con l'uso dei cagli specifici è possibile produrre su scala industriale, prodotti del tutto simili a quelli tradizionali (...). Simone continua dicendo: “Che cosa me lo fa fare, allora, di avere foraggi, fieni, attenzioni diverse? Quello che noi facciamo diventa interessante quando tu capisci qual è l’alternativa. Così esiste il Consorzio che arriva a controllare e stabilisce che su 10.000 forme realizzate in un caseificio, 1000 vengono declassate perché non corrispondono ai parametri qualitativi. Perciò, quando tagli una forma di Parmigiano e la trovi buona, sai che dietro c’è un’opera sinfonica di persone che i batteri li ha portati dal campo fino praticamente alla scaglia, in un percorso ambientale perfetto. Noi non possiamo agire con antifermentativi e cose del genere. Per evitare ogni difetto del latte l’ambiente di mungitura dev’essere sano, la vacca non dev’essere in sofferenza o sotto stress.”Il Gusto
Sul tema del gusto, assaggiando con attenzione si capisce quanto il formaggio sia un’espressione vera del territorio da cui proviene. “Quando siamo di fronte a un formaggio di montagna ci sono più essenze spontanee nei formaggi. Così quando in fase di degustazione ti ritrovi a scrivere molto, è probabile tu stia assaggiando un prodotto di altura, di maggior complessità e con una gamma espressiva più ampia. Il fatto poi che il formaggio sia estivo o invernale lo si capisce dal colore, perché in estate le bovine vengono alimentate con foraggi verdi e più freschi, più ricchi di betacarotenoidi, clorofilla eccetera, quindi la pasta sarà tendenzialmente più gialla, mentre in inverno tende più al bianco, con una gamma cromatica profondamente differente. Immagina a questo punto il consumatore abituato a comprare un formaggio industriale che ha quel pantone della Chr-Hansen con cui si fanno 100 mila tonnellate di formaggio. Quello e quello soltanto sarà il suo colore.” Il che non significa assolutamente che si stia mangiando qualcosa che non fa bene, ma quanto si perde in termini di personalità? Un altro esempio sono le miriadi di variabili che possono condizionare in un modo o nell’altro la produzione di un Parmigiano: “è una complessità ben difficile da governare. Se ci si ritrova con un’estate molto calda, gran parte dei sali minerali le mucche l’avranno già dispersa. Un forte temporale spaventa tantissimo le bovine, quindi il latte del giorno dopo sarà più “difettoso”. In una giornata umida con una temperatura relativamente bassa non è la stessa cosa che una calda e secca, i batteri lavorano in modo completamente diverso e il casaro cuocerà usando tempi e temperature sensibilmente differenti. Ogni giorno il latte non è uguale, in base alla cagliata si capisce come i batteri si muovono. Anche come fermenta il siero innesto è fondamentale. Morale della favola non c’è un solo elemento che sia esauriente per ottenere un ottimo Parmigiano Reggiano”.Raccontare il Parmigiano Reggiano è un’impresa che non esaurisce in queste righe, perché i temi da affrontare sono davvero moltissimi, a partire da quanto abbiamo scritto per arrivare alla complessità gustativa data dalle differenti stagionature. Simone sottolinea che nell’attività di promozione e formazione: “siamo all’inizio, ci vorrà molto tempo, ma i segnali sono positivi. Un forte merito, nella sua tragica drammaticità, l’ha avuto il terremoto, quando ci siamo svegliati con 600 mila forme a terra e tutta l’Italia ha telefonato per comperare il Parmigiano e aiutare i produttori colpiti. Abbiamo ricevuto tante e tali richieste che i caseifici si sono trovati a velocizzare un passaggio culturale e commerciale che altrimenti avrebbe richiesto con tutta probabilità degli anni.”
E conclude dicendo: “dobbiamo fare in modo di far capire al consumatore come assaggiare questo formaggio al meglio, perché se anche è il più buono del mondo e lo tiriamo fuori dal frigo a 4 gradi senza aspettare, magari appena aperto dal sottovuoto, allora abbiamo danneggiato dell’80% le sue peculiarità”. Altro passaggio culturale importante è capire che il Parmigiano si può mangiare come alimento a sé e non soltanto grattugiato. Il formaggio è resistente ma non indistruttibile, nel momento in cui esce dal sottovuoto c’è una sottospecie di depressione, quindi tende a rilasciare grasso e umidità. Va quindi tamponato e se la parte che è stata a contatto con la pellicola è leggermente “cotta” va raschiata, se si vuole ottenere il massimo. Quando poi viene riposto in frigo dev’essere anzitutto asciutto e pulito dalle briciole che tendono a restare attaccate alla crosta e a irrancidire. Il contenitore dev’essere pulito e senza odori: se una vaschetta in plastica tipo Tupperware può andare l’ideale, va da sé, è la carta da formaggio.