Tre ingredienti, tutti obbligati all’eccellenza. Non si può nascondere chi prepara la carbonara, piatto fra i più trendy del momento (e di sempre). Se la cucina romana è purismo e gesto millimetrico, in questo modernissima, ogni elemento risulta cruciale: il dettaglio in zona Colosseo non esiste.
Il Prodotto
Non stupisce, quindi, che dentro il successo delle carbonare più acclamate di Roma ci sia un guanciale speciale: quello di Re Norcino, azienda agricolo artigianale (così si definisce) fondata nel 1957 a Petritoli da Giuseppe Vitali senior. “Ma allora si trattava quasi solo di un allevamento, in cui la norcineria giocava un ruolo marginale”, illustra il nipote Giuseppe junior, che nel 1997 ha assunto il controllo dell’azienda con i fratelli Luca, Giampiero, Massimiliano e il cugino Stefano. “Fin da piccoli eravamo abituati a dare una mano, in cambio di una paghetta. E questo ci aveva allontanato dall’azienda, perché non potevamo fare la vita dei coetanei. Quindi avevamo preso altre strade: io appassionato di motori, un fratello carabiniere, Giampiero, che ora fa il norcino, cuoco. Quando però mio padre Giovanni ha detto che avrebbe venduto l’azienda, ho organizzato la rivolta. Oggi ognuno ha il suo ruolo: Massimiliano segue l’allevamento, Luca la parte tecnologica, io faccio l’amministratore”.Sono stati loro a rilevare a stretto giro un casale ottocentesco nel comprensorio di San Ginesio, all’interno del Parco dei Monti Sibillini, puntando sulla diversificazione del business. Nel senso che la vendita di carne fresca e animali vivi per le Dop italiane prosegue, l’allevamento continua a svolgersi a Petritoli, ma ora ci sono spazi e tecnologie per produrre salumi di altissima qualità nel microclima e nel contesto ideali per la stagionatura naturale, grazie all’aria ossigenata e alle mura spesse quasi un metro.
“Costruire un capannone ci sarebbe costato sicuramente di meno che restaurare il casale, ma il nostro sforzo è quello di proseguire la tradizione, aiutandola con l’innovazione. Collaborando con l’università di Ancona, abbiamo verificato che si è sviluppata una gran varietà di lieviti, muffe e batteri che lavorano per noi. Cosicché la chimica si riduce a una puntina di salnitro. Usiamo macchinari all’avanguardia per garantire una qualità costante, spesso problematica a livello artigianale, e continuiamo a investire in questo senso. Per esempio posso controllare in qualsiasi momento con lo smartphone come stanno gli animali, verso cui ci sentiamo responsabili. Abbiamo sviluppato un software gestionale unico, che tiene sotto controllo i parametri del benessere e se manca qualcosa, ricevo immediatamente un alert. Alcune soluzioni le stiamo brevettando”.
“Il miglioramento è la nostra mission, anche sotto il profilo delle razze suine. Cosa significa carne italiana? Basta che l’animale sia nato, vissuto, macellato in Italia o c’entra anche il dna? I nostri suini sono geneticamente italiani al 100%. Si tratta di animali a lento accrescimento rispetto alle varietà spinte per la produttività, a detrimento della qualità e del benessere animale, simili piuttosto a macchine da corsa, che magari in campagna fanno fatica, o centometristi contrapposti a maratoneti. Noi alleviamo suini pesanti, che vivono a lungo, con una buona qualità della vita, non neri ma dal mantello scuro, una via di mezzo fra la cinta senese e l’ibrido, di cui riuniscono i pregi. E la loro carne fa il 70% della qualità dei salumi, perché è asciutta, contiene poca acqua e ha un grasso in equilibrio fra omega 3 e omega 6, ricco quindi di antiossidanti e quasi sano quanto l’olio di oliva. Continuiamo a vendere animali per le Dop, ma per noi teniamo quelli più idonei, per rusticità e resistenza”.
Non basta: l’azienda lavora a ciclo chiuso, producendo sui suoi terreni i cereali per l’alimentazione dei suini e sta sperimentando l’allevamento all’aperto in un ambiente incontaminato, senza fonti di inquinamento nelle vicinanze, cosicché gli animali si ammalano pochissimo e non assumono praticamente medicinali.
I canali di vendita sono due: i privati possono acquistare online, ma gran parte della produzione finisce nell’alta ristorazione, dentro le celle di nomi quali Alessandro Pipero ed Errico Recanati, che si serve del top di gamma, “prodotto eccellente”, per le sue grigliate. Perché lo hanno scelto? Giusta salatura, buona consistenza, pepe ben dosato, prezzi giusti e standard sempre ottimi, risponde il primo.
Ma torniamo al guanciale. “Alla sua qualità concorrono tutti i fattori: razza, benessere animale, alimentazione dell’animale e ovviamente lavorazione. È in gran parte una questione di tempo: diamo all’animale e al salume tutto quello che occorre per arrivare a maturazione, senza scorciatoie chimiche o zuccheri che accorcino la stagionatura”. Non senza segreti, per esempio il tipo di pepe e di sale impiegato. Alla fine ne sono disponibili tre versioni: il base di 3-4 mesi, il riserva di minimo 6 e il maiale brado di 1 anno, esplosione di profumi grazie all’alimentazione en plein air, da prenotare perché puntualmente esaurito. Specialmente il primo e l’ultimo rappresentano il top per una carbonara di qualità, grazie alla salubrità e alla scioglievolezza del grasso da una parte, alla fragranza e alla consistenza della carne magra dall’altra, asciutta perché matura. Mentre il secondo, più sapido, si presta piuttosto alla preparazione dei taglieri, come si usa da queste parti. Poi c’è l’altro fiore all’occhiello, il ciauscolo, pluripremiato nelle competizioni del salame naturale.
I tempi non sono facili, ma l’azienda è già sopravvissuta al terremoto del 2016. “Allora ho letto tutti i documenti, dopo 3 mesi ho ritirato le domande di finanziamento e in altri 6 mesi abbiamo riparato tutto da soli con le nostre forze, senza fermarci mai”. Certo la carbonara è stata un volano micidiale per le esportazioni, dalla Svezia alla Germania, passando per la Francia. Paesi dove fino a un lustro fa il guanciale era un illustre sconosciuto, oggi invece c’è chi si iscrive pazientemente nella lista delle prenotazioni. Ma gli usi in cucina sono tanti. “Chi mi ha stupito? Mia moglie Paola, quando me lo ha servito con una pasta alla crema di carciofi”.