Quando il Po incontra la Champagne: un 4 mani alla Corte Pallavicina con Spigaroli, Bartolini e Krug.
C’è un’ora, nella Bassa, che non appartiene né al giorno né alla notte. È un lembo di tempo che il Po trattiene per sé, come un vecchio sovrano che non vuole consegnare il trono a nessuno. La luce si sfilaccia in veli sottili, la nebbia inizia a cercare un varco e l’aria si fa lenta, grave, sospesa. Si percepisce il passaggio di un confine invisibile: quello tra ciò che accade e ciò che si ricorda. In questo chiaroscuro umido, la Bassa sembra respirare in profondità, come se dalle golene salisse un pensiero antico. Le frasche si piegano appena, i pioppeti oscillano in un silenzio che non è silenzio ma attesa, e il fiume—quieto nella sua mole larga—fa da metronomo alle ore.

Chi arriva alla Corte Pallavicina in questo momento sente che non si tratta di un semplice ingresso. È un attraversamento. Una soglia che strappa l’uomo al suo passo quotidiano e lo consegna al ritmo più lento, più grave, più vero del Po. I mattoni, umidi come memoria che non vuole svanire, custodiscono qualcosa che va oltre la cucina. Ciò che accade qui non si limita a saziare: convoca. Si materializza come una pagina della Bassa scritta nel punto esatto in cui la terra finisce e il respiro del fiume comincia. Su questa scena sospesa, appare l’improbabile incontro: Po e Champagne. Nebbia e filigrana. Radice e luce. Due cuochi, Massimo Spigaroli ed Enrico Bartolini, si muovono come due mani che raccontano la stessa storia in due lingue diverse. La prima affonda: è la mano che conosce la fermentazione delle cantine, la rugiada che entra nelle carni, la lentezza che matura i culatelli come fossero figli del fiume.



La seconda slancia: è la mano che pensa in linee nette, che traduce la tradizione in un gesto preciso, che porta la materia verso un altrove contemporaneo. Non è un semplice 4 mani. È un paesaggio che si scrive attraverso loro. È la Bassa che per una sera decide di parlare con due voci invece che una. E su tutto, come un chiarore che non abbaglia ma rivela, scorre Krug: la luce che fa vedere ciò che normalmente resta nell’ombra.
L’aperitivo: la soglia mistica tra antico e contemporaneo — Krug Grande Cuvée 173ème Édition
Prima ancora che il menu inizi a raccontarsi, la serata si apre in un luogo che non è più semplicemente una sala: è un teatro di luce e ombra. L’antico e il contemporaneo si compenetrano come due strati della stessa immagine. Il passo scricchiola sui mattoni mentre le volte, intrise di secoli, sorreggono una luce che sembra dipinta: un chiarore ambrato, radente, che ricorda i fiamminghi e Caravaggio. Le candele e il camino non illuminano: modellano. Sfiorano i contorni, scolpiscono lo spazio, nascondono metà del mondo per far vibrare l’altra metà. Un duo musicale accompagna il rito dell’ingresso: una voce calda e melodie morbide. Le note, lente e sinuose, sembrano uscire da un vecchio grammofono che ha respirato Bassa per una vita intera.


Davanti, salumi che profumano di cantina e nebbia—culatelli monumentali, forme di Parmigiano che sembrano blocchi scolpiti di luce solida—bocconi sfiziosi che dialogano con la verticalità nitida della Krug 173ème. La 173ème apre la serata come l’alba apre il fiume: una lama chiara su acqua scura. Profumi di mandorla fresca, agrumi tesi, un soffio di brioche che non ingrava ma prepara. In bocca ha una verticalità nitida, quasi gessosa, che pulisce e invita. È un aperitivo che è già un varco: una sospensione spazio-temporale quasi mistica, in cui l’uomo non è più spettatore ma parte della geografia emotiva del luogo.

Il gesto che cambiò la Bassa: l’ombra di Cantarelli
Per comprendere questa serata bisogna chinarsi, come chi cerca una radice, su un ricordo che abita ancora lungo le rive del Po. Negli anni Sessanta, Peppino Cantarelli, oste visionario, intuì che il matrimonio più perfetto per il culatello non fosse la Fortana —figlia allegra e rubiconda di queste terre—ma lo Champagne. Fu un gesto quasi eretico, come mettere un raggio di sole dentro una nebbia. Eppure fu proprio quella audacia a cambiare il destino gastronomico della Bassa. Spigaroli porta avanti quell’intuizione con la naturalezza di chi vive immerso nel ritmo delle nebbie. Bartolini la rilancia verso una sensibilità contemporanea. Krug, con la sua finezza quasi musicale, la amplifica.

Krug: la luce che plasma
Krug non si limita ad accompagnare i piatti: li illumina. Si comporta come una luce radente su un affresco: non aggiunge, ma rivela. Le sue cuvée hanno corde che vibrano come strumenti: alcune profonde, altre tese, altre ancora sospese come un pensiero che vuole risalire. Il percorso scelto dai due cuochi è un crescendo calibrato, come un racconto che sale d’intensità: dalle edition più sottili e intime, alla brillantezza del Rosé, fino alla solennità dorata del Millesimato 2006. È un dialogo, non un abbinamento. Ogni sorso sembra pronunciare una frase che il piatto completa.

Le mani che scrivono il paesaggio
La mano di Spigaroli è terra: porta la densità geologica, la pazienza delle cantine, l’umido della Bassa che entra in ogni fibra delle carni. La mano di Bartolini è linea: un tratto rapido, intuitivo, che disegna aria e leggerezza. Insieme compongono un equilibrio simile a quello del Po quando cambia direzione senza rumore: un movimento impercettibile che però trasforma tutto.
Il menu: quattro quadri della Bassa
Gran Riserva Spigaroli
Uovo, animella, cavolfiore e tartufo bianco – Krug 171ème Édition
Qui la Bassa diventa voce piena. Il culatello Gran Riserva, stagionato nel respiro del Po, porta note di noce umida, cantina antica, carne turgida che si fa pensiero metafisico, complesso, ardito. L’animella aggiunge all’altro piatto una carezza lattica e soffice, l’uovo porta cremosità, il tartufo bianco diffonde un respiro boschivo, nobile, quasi ipnotico. La 171ème incide come luce che entra da una finestra piccola: agrumi maturi, mineralità tagliente, finale lungo e asciutto. È un quadro di chiaroscuri: l’ombra del tartufo, la luce dello Champagne.



Riso al latte, civet e more – Krug 170ème Édition
Il piatto più segreto, quasi confidenziale. Il latte avvolge come un ricordo d’infanzia, il civet porta una profondità animale, ferrosa, che richiama il sottobosco nelle notti d’autunno. Le more, acide, inframezzano il morso con una componente amabilmente fruttata. La 170ème risponde con note più ampie: frutta gialla, tostature leggere, una tessitura densa che accompagna senza dominare. Un capitolo che scende dentro, come un brano di notte ascoltato accanto al fiume.

Filetto di suino nero, consistenze di sedano rapa, salsa d’uva fortana e senape.
Zucca e porcini – Krug Rosé 29ème Édition
Il suino nero è nobile, compatto, dalle note dolci e selvatiche. Il sedano rapa porta la sua radice bianca e terragna, la senape aggiunge una verticalità pungente, una vibrazione acidulée. Il Rosé 29ème danza: lampone, rosa, pepe bianco, una bolla più energica. Il piatto si apre, lo Champagne respira, e la scena vibra.
Il piatto che segue è , l’ altrove contemporaneo, la Bassa metafisica. Non nella forma che ci si aspetterebbe. La zucca, infatti, non è velluto né crema: ha una consistenza sorprendente, quasi da scoby, un corpo elastico e vivo, con note acetiche appena accennate. Un soffio, non un’acidità dichiarata. Una memoria tattile che, per chi l’ha vissuta, richiama il budino di mosto d’uva delle nonne: una dolcezza primitiva, imperfetta, profondamente emotiva.
I porcini, al contrario, non invadono: sono cremosi, delicati, presenti e assenti allo stesso tempo. Una matericità minima, essenziale, come un’eco del bosco più che il bosco stesso. Il loro profumo è una nuvola sottile, quasi un va pensiero verdiano. È un piatto intimo, criptico, volutamente indecifrabile: i commensali, infatti, si divertono ad interpretarlo ciascuno secondo il proprio paesaggio interiore. Un’esperienza più mentale che gastronomica, come ascoltare un ricordo invece che una musica. La Krug Rosé 29ème non domina e non consola: traccia un filo di luce che attraversa silenziosamente la scena, rendendo leggibile ciò che di per sé rimarrebbe mistero. Qui il colore è protagonista.
Oro e cioccolato – Krug 2006

Chiude la serata un abbraccio denso e luminoso. Il cioccolato, goloso, profondo e caldo, si stende in note di cacao, miele bruno, frutta secca. Il 2006 risponde con un registro ampio: miele d’acacia, scorze candite, pasticceria antica, incenso, un tocco di nocciolo tostato. È un passo vibrante e lento, quasi solenne.
La chiusura del fiume
Quando i calici si svuotano e il fruscio delle cucine si attenua, la notte torna a farsi notte. Il Po riprende il suo ritmo largo, come un animale antico che non si cura degli uomini ma li osserva da lontano. Resta nell’aria una temperatura diversa: un pensiero sospeso, come quando si esce da un libro che non si vuole richiudere. La Bassa, in queste ore, non racconta: si lascia ascoltare. E ciò che resta non è solo il ricordo di un menu, ma la percezione di essere stati nel punto esatto in cui la terra incontra la luce, la nebbia incontra il calice, e il fiume—per un momento—decide di parlare. Una pagina di paesaggio. Scritta a quattro mani. Firmata da un calice di Krug.
