Il ristorante di Emin Haziri, arrivato dal Kosovo come clandestino e oggi tra gli chef più interessanti del panorama gastronomico meneghino, è un salotto anni Settanta che propone una potente cucina di rigorosa osservanza italiana con twist contemporanei. Ecco il nostro racconto dell’esperienza nel gourmet appena insignito della Stella Michelin.
Lo chef
Emin Haziri è una delle figure più interessanti della nuova scena gastronomica milanese che si muove in direzioni varie e non sempre facilmente comprensibili. Kosovaro, classe 1995, all’età di sette anni è fuggito dal suo Paese che stava affrontando il drammatico processo di indipendenza dalla Serbia ed è arrivato da clandestino in Italia dopo una faccenda di contrabbandieri, di boschi attraversati a piedi, di paura e incertezza: e qui si è fatto largo con la rabbia e la determinazione di chi fin da piccolo ne ha visto di ogni colore.

Emin ha presto scoperto che la cucina sarebbe potuto diventare il suo terreno di riscatto, di espressione, di felicità, fin dalla formazione all’alberghiero di Trieste, la prima. Ha avuto grandi maestri (Philippe Léveillé del Miramonti l’Altro di Concesio, Enrico Bartolini al Mudec di Milano, Carlo Cracco che lo piazzò al Carlo e Camilla in Segheria sempre a Milano), ha conosciuto dall’interno quella fabbrica di perfezione che è stato il Noma di René Redzepi a Copenaghen ma soprattutto ha conquistato scorrazzando per Villa Crespi la fiducia di Antonino Cannavacciuolo, incantato dalla volontà e dalla propensione al lavoro di questo giovane dotato della sfrontatezza di chi fin da piccolo si è dato traguardi importanti. Lo chef campane lo ha spinto a forza di pacche sulla schiena a occuparsi come executive chef del Cannavacciuolo Bistrot, dove ha conquistato la stella ad appena 25 anni.



Haziri è un personaggio che si impone, il suo sguardo ti squadra e ti perlustra, è un uomo che non si concede il vizio della timidezza. La prima volta che lo incontrai, poco dopo l’apertura di Procaccini nella tarda primavera del 2024 – vernissage preceduto da un’insolita campagna pubblicitaria sui tram della città che fece intuire che qualcosa di buono stava arrivando - mi sembrò un po’ burbero, poco desideroso di far piacere di sé altro che non fosse la cucina. Poi si è decisamente ammorbidito, e chissà che non abbiano contribuito i video di un certo successo con cui insegna a eseguire delle ricette (in alcuni casi le sue, più spesso classici italiani) e che introduce con il claim “Ci pensa Emin!”. Di queste clip che sempre più chef realizzano per sostenere la loro notorietà (solo a Milano si distinguono Cesare Battisti e Andrea Berton) piace lo stile diretto ed efficace e la durata molto contenuta. Lui racconta che c’è molto lavoro dietro a questi contenuti e che si sente molto a fuoco nel farli.

Il ristorante
E veniamo alla cucina. Quella di Haziri è coraggiosa e in alta definizione, sorretta da idee chiarissime. Il suo punto di riferimento è l’Italia, che come molti chef stranieri interpreta con applicazione e rigore, senza dare nulla per scontato, dribblando pregiudizi e steccati. Da Procaccini, una delle poche nuove aperture davvero interessanti degli ultimi due anni nel settore fine dining in una Milano che al momento si muove in altre direzioni, Haziri propone quattro menu: il più completo ed eloquente è Il Viaggio dello Chef, che racconta i piatti più attuali di chef Emin a 165 euro. Poi il Classico Contemporaneo che è una giusta via di mezzo per palati meno avventurosi (130 euro). Quindi La Tradizione Italiana, che reinterpreta in chiave haziriana piatti come la caprese, la cacio e pepe, il vitello tonanto e il tiramisù (110 euro). Infine il menu Vegetariano, sempre a 110 euro. Naturalmente c’è anche una carta da cui scegliere liberamente, nella quale figura anche la Carbondoro con uso di oro alimentare (e infatti costa 70 euro) che ha fatto molto discutere sui social, come accade sempre quando qualcuno si permette di mettere l’abito da sera a un nostro classico gastronomico.

I piatti
La mia recente visita che ho trascorso appollaiato al bancone chiacchierando con lo chef e godendomi il sommesso tappeto musicale tessuto da un pianista – che bello questo tocco borghese e un po’ fané – sono partito dal primo servizio dei panificati con dei grissini stirati a mano e una schiaccia decorata con l’immagine del Duomo che ha accompagnato una piccola sfilata di snack disposti in fila come solda: un Toast di sgombro affumicato con senape in grani, un Mondeghilo di baccalà mantecato con menta e zucchine (il migliore della pattuglia), un Cannolino di seppia e una Tartelletta con tartare di fassona e riduzione di vitello.


Si entra nel vivo con un carnosissimo gambero rosso di Mazara con limone salato e germoglio di nasturzio, acquattato sotto un rosseggiante velo di barbabietola la cui nota amara ben spalleggia la dolce grassezza dell’interprete principale. Si va avanti con il secondo servizio del pane: altro omaggio a Milano con la più classica delle michette, che appare quasi vezzosa a confronto con una robusta pagnotta, il tutto accompagnato da un burro di Normandia ben montato e leggermente salato e da una polvere di fico e lime che dona freschezza e nota “verde”. Il livello si alza: arriva in tavola un ricamo in bianco e nero che circonda una Capasanta cruda, realizzato con un ricamo puntinista realizzato con yogurt, nero di seppia e caviale. Un piatto che quasi si esita a pasticciare.



Poi il piatto-manifesto della serata. Haziri decide di sfidare il più classico dei primi di mare della tradizione italiana, lo Spaghetto alle vongole. Che lui rende cremoso nel piatto con una accurata mantecatura ed elettrizza con un olio al peperoncino e sedano verde. La dimostrazione di come l’alta cucina possa proficuamente dialogare con la tradizione e con il piacere puro che dà questo piatto da infradito. Esperimento riuscito.

Il secondo è un Cuore di baccalà ricoperto da un velo di maionese fatta con la sua acqua, cipolla rossa e una crocchetta di trippa di baccalà. Un piatto che cita gli anni Ottanta nella sua postura post-moderna ma che convince all’assaggio: è cucina perfettamente contemporanea. Poi un altro tocco di altri tempi, un assortimento di formaggi non troppo affollato ma ben costruito, che riconferma la riscoperta nei ristoranti (milanesi ma non solo) della cultura del carrello, che rende il servizio dinamico e permette una interazione tra la sala e il cliente. Naturalmente si finisce con i dolci. Dapprima una Pera Williams caramellizzata con gel di limone, cremoso alla camomilla, gelato di pera e crumble, poi una piccola pasticceria molto conformista ma ben eseguita: un bignè, un lollypop vaniglia e cioccolato e una tartelletta al lampone.

Alla piacevolezza della serata contribuisce una cantina ricca e centrata con referenze blasonate e affidabili ma anche qualche scoperta, ma occhio ai ricarichi non lievi. C’è anche un cocktail bar al quale si può chiedere soccorso se si ha voglia di un classico drink bene eseguito.

L’ambiente è curato dall’architetto Alberto Baronio di Studio Archea con la collaborazione dell’interior designer Andrea Raso, che hanno ricreato un ambiente anni Settanta, elegante e un po’ sopra le righe ma senza eccessi. Marmi, ottoni, vetro, juta, a metà strada tra grammatiche razionaliste e cedimenti nostalgici, il tutto arricchito da una palette di colori decisi e contrastati. La cantina è a vista come pure la cucina che dialoga fittamente con la sala, che può godersi lo spettacolo d’arte varia di una brigata giovane e competente.
Procaccini
via Procaccini 33, Milano.
Tel, 0277091277.
E-mail: milano@procaccini.com.
Aperto tutti i giorni solo la sera