Top Chef

Jeremy Chan: "L'Europa è innamorata della cucina giapponese ma ignora l'Africa"

di:
Sveva Valeria Castegnaro
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Tra filosofia, libertà culturale e rigore assoluto, lo chef di Ikoyi sfida i pregiudizi del fine dining e racconta la sua cucina senza confini.

La notizia

Anima cosmopolita, con radici in movimento, ma tutt’altro che indefinito, Jeremy Chan è un uomo dalla forte identità, in continua evoluzione, guidato dalla curiosità e dalla costante ricerca di sé. Padre cinese, madre canadese, nato in Cina e cresciuto in giro per il mondo, Chan è oggi proprietario di Ikoyi, il ristorante londinese che in un solo anno ha scalato 27 posizioni nella 50 Best Restaurants in the World, una delle realtà più sorprendenti della scena gastronomica d’Oltremanica. Racconta come la libertà culturale e l’assenza di tradizioni imposte abbiano influenzato profondamente il suo carattere e, ancor più, la sua carriera iniziata da autodidatta: Mia madre è canadese e mio padre è cinese. Ognuno di noi viveva in un universo diverso. A casa mia non c'è mai stata alcuna tradizione, ricetta di famiglia o un patrimonio culinario che mi definisse”, ha confidato a La Vanguardia.

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Jason Alfred Palmer

Una libertà che, per essere gestita, necessita, però, di estremo rigore.  Una libertà nutrita dalla curiosità e dal profondo studio, come quando, dopo la laurea in filosofia alla Princeton University (New Jersey), Chan lavora per un periodo nella finanza e poi si trasferisce a Madrid, dove inizia a svelarsi la sua passione per la cucina e, soprattutto, per gli ingredienti. “A Madrid amavo andare al mercato. Trovavo incredibile che ci fosse così tanta vita, così tanta connessione, nel centro città. Mi sono innamorato di quell'energia. In Spagna ho imparato che la cucina, oltre alla tecnica, è anche una questione di emozioni. In Inghilterra, tutto ruota attorno alle bevande. In Spagna, il cibo è al centro. È un paese dove le persone vivono intorno alla tavola, e l'ho trovato profondamente stimolante”. Da lì nasce il suo rapporto con la cucina: una libertà radicata, ma al tempo stesso fedele alle materie prime, alla stagionalità e ai prodotti locali.

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Spezie provenienti da paesi lontani e tecniche multiculturali sono oggi l’essenza di Ikoyi, il ristorante che Chan gestisce insieme alla sua compagna nigeriana, Iré Hassan-Odukale. L’assenza di confini, intrecciata a una forte identità, lo porta a una riflessione profonda sulla percezione culturale e sulla critica gastronomica, spesso scettica o diffidente verso la cucina africana, presenza importante nei suoi piatti: “Se uno chef francese usa miso o cardamomo, nessuno dice che sta cucinando cibo giapponese o indiano. Ma se uso un pepe africano, è automaticamente cucina africana. Questo è pregiudizio. Non è razzismo vero e proprio, ma una forma di esclusione culturale”, racconta ancora infastidito dall’etichetta di “Cucina africana moderna” affibbiata a Ikoyi al momento dell’apertura nel 2017.

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Chan, anche oggi, continua a rifiutare ogni rigida definizione: “Non mi interessa. Cucino per gli altri, non per me stesso. Posso vedere, annusare e toccare un prodotto e so che è perfetto. Non ho bisogno di assaggiarlo. So che suono dovrebbe avere un boccone. Il piatto è pronto quando tutto si amalgama. Quando l'ingrediente raggiunge il suo apice. Non quando lo assaggio, ma quando lo sento. Il mio ristorante è come una persona: complessa, contraddittoria, che cerca di capire chi è. Non mi piace parlare troppo da Ikoyi. O spiegare ogni piatto. È solo cibo. Il cliente non ha bisogno di sapere tutto. Ha solo bisogno di sentirlo.” Una necessità e un’indole caratterizzate tanto dalla libertà quanto dal rigore, che costringono Chan a calibrare con precisione meticolosa il suo equilibrio tra autenticità e il settore dell’ospitalità: “Per mantenere in piedi il ristorante devo stare al gioco: riempire i tavoli, far sapere al mondo che esisto. La mia crisi è proprio questa: mantenere l'integrità mentre il sistema ti trasforma in un prodotto. La fama è rumore. Ciò che conta è la precisione, la temperatura, il momento esatto in cui qualcosa prende vita”.

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