Tra aprile, maggio, fine settembre e ottobre l’ospite che conta non colleziona solo tramonti, ma capisce da dove vengono, fra natura da esplorare ed esperienze gastronomiche autentiche. Ecco i segreti del 7Pines per far scoprire l’isola ai travellers anche oltre la stagione estiva!
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Il resort
La natura sarda brinda a un nuovo concetto, fatto su misura per lei, fatto più di silenzi che di selfie, più letture che di dj-set, più di sapori che di luci stroboscopiche. Se l’estate è la stagione in cui l’isola viene divorata di richieste e turismo, c’è chi ha a cuore la sua vera essenza e la mostra per ciò che non ha mai smesso di essere: cultura, artigianato, agricoltura, mestieri, pazienza. In questo, 7Pines Resort Sardinia sembra averla osservata proprio nella sua forma più vera, mostrandola senza fretta, con la stessa devozione di chi la ama capendola, non di chi la consuma.



Eppure, anche con questa formula «la stagione è stata un successo», mette subito in chiaro il direttore Vito Spalluto. «Un successo economico, certo, ma anche nei risultati qualitativi del resort, dei nostri outlet, dell’offerta e della soddisfazione dell’ospite. Da noi non serve fare show off: si apprezza la genuinità di quello che produciamo. Massima attenzione ai dettagli, sì, ma anche al territorio. Sostenibilità delle persone e ambientale, sempre».Nel frattempo, il profilo degli ospiti si sposta verso l’alto: più stranieri degli italiani, età ideale 30–60 anni, e un pubblico che sceglie vacanze “rilassate ma culturali”: sport, mare nei mesi caldi, esplorazione nell’Arzachena più autentica. «Da quest’anno la zona è entrata nella Blue Zone», ricorda Spalluto. «Non è il nostro target principale, ma abbiamo visto arrivare anche un turismo anagraficamente più grande: la qualità di vita parla da sé».


Il fuori stagione come scelta culturale
Il fuori stagione, qui, non è sconto: è curva di apprendimento. Tra aprile, maggio, fine settembre e ottobre l’ospite che conta non colleziona tramonti: capisce da dove vengono. Va in barca verso l’Arcipelago della Maddalena, poi rientra per una giornata da pastore: niente fiction rural-chic, ma la realtà di chi lavora il latte e lo trasforma, di chi conosce il calendario delle pecore meglio di quello digitale. «È un’esperienza verissima», conferma Spalluto. «Nei mesi meno torridi funziona benissimo: natura, stile di vita, dialogo. La stessa ragione per cui le zone della Blue Zone esistono».


Accanto al paesaggio lento, la velocità lucida delle supercar: sì, qui si fanno raduni Pagani, Bugatti, Ferrari da collezione. Strade belle da guidare, curve e orizzonti come storyboard: un altro modo, paradossale ma coerente, di misurare lo scenario. E matrimoni, lanci di prodotto, team building: il resort si presta, «e nel prossimo futuro ancora meglio», promette il direttore.
Tre cucine, una voce: Pasquale D’Ambrosio
Se l’ospitalità è una partitura, Pasquale D’Ambrosio ne è il primo violino. Executive chef con una cifra personale riconoscibile, ha accordato tre progetti gastronomici in un’unica grammatica: Capogiro (fine dining in Guida Michelin 2025), Spazio by Franco Pepe (dove l’impasto del maestro dialoga con ingredienti sardi), e Cone Club, il beach club che cucina il mare senza cliché.

«La stagione è andata alla grande», racconta. «Abbiamo aperto ad aprile e da lì un crescendo. Occupazione 85–95%, ristoranti pieni e — dato cruciale — 60–70% di clientela esterna al resort. In Costa Smeralda è una piccola impresa: fuori c’è un mondo di alternative fortissime. Il fatto che ci scelgano è una vittoria». I tre outlet hanno aperto in tre atti: Spazio by Franco Pepe (con trattoria annessa) ad aprile, Capogiro a maggio (appena entrato in Guida ’“Gambero rosso” con due forchette), Cone Club a giugno. «Capogiro è stato in overbooking da maggio a ottobre», precisa. «Abbiamo persino prolungato l’apertura fino al 18 ottobre, insieme all’hotel».

La macchina non si spegne: laboratori, lieviti, conservazioni
«Nella nostra concettualità non esiste la stagionalità», dice D’Ambrosio. «Chiudiamo al pubblico, ma dentro si lavora: sviluppo prodotti, lieviti, farine, impasti per pasta e pizza; fermentazioni e appartamenti (conservazioni) per portarci in primavera-estate ciò che l’inverno regala; ricerca sui prodotti stagionali. Non siamo “stagionali” nel pensiero». Il perimetro del lavoro è una rete locale costruita in tre anni: mulino per grani antichi (zona Arzachena), cooperativa dei pescatori di Isola Rossa («pescato del tratto Asinara–Asinosa, non altrove»), allevatori vicini, artigiane che modellano ceramiche su misura, signore di paese che ancora intrecciano tradizioni: culurgiones, biscotti, paste fresche.


L’olio? Bosana della cooperativa di Berchida, in diverse estrazioni. Le farine? Senatore Cappelli della zona, che diventa pane, pasta fresca e formati speciali: «Il fusillone lo facciamo produrre a Gragnano con il nostro grano sardo; stessa cosa per pasta mista e spaghetti. È il nostro modo di unire filiere: territorio sardo + maestranza campana». La domanda più insidiosa: “Come coniuga la tradizione sarda?” D'Ambrosio la rovescia con cortesia: «Non ripropongo le ricette sarde. Le rispetto. Il mio punto di partenza è il prodotto sardo, che condivido con la mia visione: una cucina libera e inclusiva, contaminata dal mio percorso (Campania, Inghilterra, Francia, tante regioni italiane). Io porto me dentro gli ingredienti di qui».

Esempi, concreti. In pasticceria al fine dining non troverete la Seada “com’è”: quella vive negli altri outlet. A Capogiro, piuttosto, la memoria personale entra con discrezione: la “Pasta mischiata ai 12 pomodori” — «un omaggio alle città e alle regioni dove ho lavorato: racconto gli altri per dire me stesso con discrezione». Il risultato è una cucina non folkloristica e non didascalica, ma profondamente territoriale nella materia, intelligente nella forma, contemporanea nel pensiero.

I piatti-faro del 2025
Un capitolo a parte merita i piatti di questa stagione appena conclusasi. Perché? Perché hanno dimostrato quanto anche il piatto più studiato possa sorprendere anche il suo creatore. Questo perché lo chef D’Ambrosio ci ha raccontato che il piatto più amato dal pubblico è stato Il riccio che non ti aspetti.
Servito in una ceramica disegnata con un’artigiana (“Leoni”), mette insieme riccio di mare, patata di Caboi, finocchio di mare e corallo di frutti di mare. «Non mi aspettavo un successo così grande», ammette lo chef. «È esploso».

Quelli che hanno soddisfatto di più lo chef, invece: due amori diversi. L’Orto in fiore – vegano al 100%. «Nato anni fa, qui ha trovato la casa giusta. Lo ricostruiamo ogni giorno con l’orto del resort: dalla primavera all’autunno, fino ai cachi finali. Un piatto che credevo di nicchia, diventato popolare. È la mia misura del “vero”». D’altra parte il Risotto al burro di erbe di macchia (Sartoriale) – un piatto-cornice. «Selezioniamo con un’esperta del territorio 24 erbe del nostro parco: mirto, timo, lentisco… Le vestiamo di burro di erbe e cuciamo il risotto come un abito su misura. È la macchia mediterranea che diventa texture». La mantecatura si arricchisce di un profumo in più, che si chiama Metamorfosi: un gin ideato da D’Ambrosio e distillato in Lombardia Da Cillario&Marazzi SpiritsCo con erbe di macchia del resort (alloro, rosmarino, bacche di ginepro, limonaie, basilico). «L’ho chiamato così perché è la parola che sento addosso: vivo qui, vedo tutto prendere forma. Ho disegnato io l’etichetta: linee che si mescolano, e insieme nascono cose straordinarie». Metamorfosi entra nel risotto sartoriale come una firma invisibile, ed è un modo elegante di dire che la mixology, se vuole, può farsi paesaggio liquido.

Poi esiste sempre il classico firmato: Fusillone glassato al limone nero, acqua di cozze e caviale di spirulina. «La Guida Michelin lo ha definito eccellente per condizionabilità. Non sorprende: è un piatto progettato a lungo. Il risotto, invece, è stato un colpo di fulmine nato cammin facendo: ora inossidabile». E poi Spazio by Franco Pepe: la pizza come ponte Campania–Sardegna. La “Senti-Menti di Gallura” racconta l’isola con fior di latte affumicato, carciofo spinoso, carpaccio di bue rosso, olive scabecciu, olio al finocchio di mare e aria di pecorino Dop; la “Essenza” unisce stracciatella, scorza di limone e aromi freschi dell’orto: bocconi che parlano piano, ma dicono molto.


Chi entra oggi al 7Pines (e perché)
D’Ambrosio osserva una trasversalità nuova: al resort è passato «di tutto: calciatori, artisti, imprenditori, coppie giovani». Ma ciò che cambia davvero è l’intenzione. «Al fine dining ho visto tanti giovani arrivare apposta per l’esperienza. Fanno domande: sulle ceramiche, sulla provenienza delle carni, sui nomi dei produttori. Dicono: invece di quattro cene a caso, ne facciamo una fatta bene. È bellissimo». Fuori dai cliché “Hollywood della Costa Smeralda”, emerge una curiosità verso la Sardegna reale. «Io sono solo il timoniere: la squadra è più grande. Raccontare gli altri significa raccontare anche se stessi — con discrezione».

Il resort ha chiuso il 18 ottobre (hotel, Capogiro, Spazio: tutto), riaprirà il 20 aprile. Nel mezzo, nessun letargo: ricerca, sviluppo, manutenzione delle relazioni con la filiera. «Quando riapriamo, la macchina parte pronta», assicura D’Ambrosio. Menu già pensati, processi tarati, filiere calde. Non una stagione “nuova”: una metamorfosi successiva. Alla fine resta questa immagine: l’isola che arrossisce, smette di sudare e impara a parlare piano; il resort che non sfrutta il silenzio — lo custodisce. E in quel registro più umano, dove la pazienza è un ingrediente e la cura una tecnica, il lusso ritrova la sua definizione più adulta: dare valore al tempo che si sceglie. Qui lo fanno con discrezione, nomi propri e una cucina che non fa folklore — fa memoria.
