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Diego Rossi sbarca in Emilia-Romagna: l’evento unico con l’Ostreria Fratelli Pavesi

di:
Manuel Marcotti
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copertina ostreria trippa ciacco

Il cibo che torna a essere rito, la convivialità che si intreccia con la bellezza del luogo, la pietra che diventa eco di voci nuove: l’Ostreria Fratelli Pavesi ha accolto Diego Rossi, Osteria alla Concorrenza e Ciacco Lab per uno dei più ghiotti (e poetici) eventi autunnali.

Varcare il cancello della Corte Faggiola, a Gariga di Podenzano, è come entrare in un sogno di mattoni e luce. L’aria d’autunno porta odore di fieno, le ombre si allungano tra archi e colonne, e la corte si apre come una scena sospesa — un teatro rurale dove il tempo sembra fermarsi. I muri, screpolati e vivi, raccontano ancora il respiro dei contadini, ma ora custodiscono un’altra vita: quella della cultura, dell’incontro, della tavola.

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Come in un quadro di De Chirico trasportato in campagna, i pieni e i vuoti dell’architettura dialogano con il silenzio, e la pietra diventa memoria. La Corte, un tempo agricola e operativa, oggi è un organismo che ha scelto di rinascere, senza rinnegare la propria anima. Restaurata con rispetto, non ha cancellato le ferite del tempo: le ha trasformate in accenti, in pause di respiro. È il luogo ideale per accogliere una “merenda d’autunno”, dove i sapori parlano la lingua della terra e i gesti diventano poesia. In questa giornata, orchestrata dai Fratelli Pavesi, la corte si è trasformata in un palcoscenico del gusto. Accanto a loro, tre ospiti d’eccezione: Diego Rossi del ristorante Trippa di Milano, l’Osteria Alla Concorrenza e il  Ciacco lab, in un dialogo tra tradizione e visione contemporanea, tra contadini immaginari e sogni di chef.

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L’aria profuma di mostarda e lunghe cotture, e il portico — tremolante di luce calda — sembra un sipario aperto. La gente entra, parla piano. Ogni dettaglio ha il ritmo lento di un film di Fellini: le risate leggere, il mio amico Matteo che si strina con uno degli ultimi soli autunnali, il vino che brilla nei bicchieri come un piccolo sole. I Pavesi hanno aperto il racconto con la loro inconfondibile selezione di salumi nostrani — coppa, culatello, salame — e la giardiniera della Bottega Pavesi, croccante e viva come un ricordo d’estate. Poi i formaggi a latte crudo, accarezzati da una mostarda dolce e brillante. Ma il cuore della scena era nei pisarei e fasò: minuscoli, perfetti, in aurea proporzione con i fagioli. C’è una magia nella misura: nei pisarei così piccoli da dialogare con il fagiolo, nell’olio che li veste piano, nel sugo che si lega con discrezione. Ogni boccone è equilibrio: una carezza che unisce pasta e legume, memoria e presente. Mangiarli è come ascoltare un racconto in dialetto — sincero, tenero, pieno di ritmo.

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L’Osteria Alla Concorrenza ha portato un soffio d’audacia: una tartare di cavallo di una freschezza elegante, seguita da un contrasto intraprendente, l’aringa affumicata. Carne e mare, ferrosita’ ematica, dolcezza e sale: due mondi che si sfiorano, si respingono, poi si abbracciano. Ogni morso ha la tensione di un dialogo improvvisato, una nota che vibra e poi svanisce. E poi lui, Diego Rossi, anima inquieta e sincera della cucina popolare. La sua trippa — umile, poetica, perfetta — profuma di soffritto, erbe e pazienza. È densa,  morbida e coraggiosa, confortante e sapida, un impercettibile accenno piccante, una carezza che parla la lingua del tempo. Rossi, che ha ricevuto il premio Origins & Future Award ai Best Chef Awards 2025, cucina come chi scrive poesie con ingredienti dimenticati: restituisce dignità alla semplicità, trasformando il quotidiano in rito.

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Il finale è un soffio, un dolce sogno firmato Ciacco: due gelati che sembrano disegnati per la stagione. Il primo alla cera d’api, una memoria di luce filtrata tra i rami. Il secondo allo zabaione, cremoso e caldo, che si scioglie lento lasciando sul palato un’eco di infanzia e il tepore di  raggi di sole ancora possenti. È un epilogo che non chiude, ma sospende: il gusto diventa emozione, e l’emozione resta. Nel cortile, la sera calera’ come una coperta di velluto. Le luci si attenueranno, i passi scricchioleranno, un’ultima risata si disperdera’ nell’aria fredda. Le mura avranno assorbito tutto — voci, odori, calore — come a  volerne conservare l’anima. La corte, che un tempo custodiva grano e animali, oggi e’ stata custode di memorie sensoriali: profumi di fondo, ombre di bicchieri, suoni di forchette che sfiorano i piatti.

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C’è qualcosa di profondamente umano in questa rinascita: il cibo che torna a essere rito, la convivialità che si intreccia con la bellezza del luogo, la pietra che diventa eco di voci nuove. Tutto scorre lento, come una pellicola in bianco e nero dove il reale sfuma nel sogno e il sogno nel gusto. E quando il gelato finisce e resta solo il silenzio, ti accorgi che anche tu sei parte della scena. La Corte Faggiola respira, viva di passato e presente, di memoria e futuro. E nel suo respiro resta il profumo dell’autunno, la carezza del vino, la piccola felicità di chi sa che il cibo, come la vita, è un modo per restare.

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