La Bassa Emiliana raccontata da Portinari e Spigaroli: una quattro mani tra due grandi interpreti della cucina italiana.
C’è un filo invisibile che unisce la Bassa emiliana e la grande cucina. È fatto di nebbie che velano le golene del Po, di campanili che spuntano come sentinelle e di osterie dove la gente si ferma a discutere di politica e di calcio davanti a un piatto fumante. È la terra di Giovannino Guareschi, che con la sua penna diede vita a Don Camillo e Peppone, icone immortali del Novecento italiano. Guareschi, oltre che scrittore, era anche un buongustaio autentico: aprì persino una trattoria alle Roncole Verdi, convinto che il cibo fosse parte integrante della cultura popolare.



È in questo contesto che nasce l’idea di leggere una cena straordinaria – una quattro mani tra due grandi interpreti della cucina italiana – come un dialogo guareschiano. Da una parte Nicola Portinari de La Peca di Lonigo, due stelle Michelin, con il suo stile elegante, meditativo, quasi sacerdotale: il nostro Don Camillo. Dall’altra Massimo Spigaroli dell’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense, una stella Michelin, con la forza della terra, della memoria contadina e del Po: il nostro Peppone. Non è un semplice gioco letterario: è una chiave per comprendere meglio ciò che è andato in scena. Perché la cucina, come la scrittura, vive di contrasti, di visioni diverse che si completano.



L’antipasto: il Po che si fa voce
Ad aprire le danze è stata la Terrina di storione del Po con il suo caviale, battuta di sedano e mela verde (by Antica Corte Pallavicina). Il piatto porta con sé la nebbia e la corrente del fiume: lo storione, possente e nobile, diventa terrina dalla consistenza morbida e vellutata; il caviale, perle scure e saline, ricorda che dal Po nascono tesori preziosi; il sedano e la mela verde alleggeriscono e rinfrescano, come una brezza improvvisa nelle calde estati padane. È un piatto che parla la lingua diretta di Peppone: schietto, concreto, ma capace di sorprendere per profondità e identità.


La leggerezza dell’uovo: una predica gourmet
La risposta di Don Camillo non si è fatta attendere. Dal menu della Peca è arrivato il Soffice d’uovo con cappuccio, tuorlo marinato, succo e bottarga di faraona. Qui il registro cambia: non è più un comizio in piazza, ma un’omelia in chiesa, che invita all’ascolto. La spuma d’uovo accarezza il palato come un sussurro, il tuorlo marinato aggiunge profondità e dolcezza, il cappuccio porta la voce della terra, mentre la bottarga di faraona sorprende nella masticazione, con una sapidità elegante, quasi ascetica. È un piatto che vive di equilibrio, in cui ogni elemento ha un ruolo preciso, come i cori che accompagnano il sermone.

Il risotto: un viaggio oltre confine
Don Camillo, galvanizzato, ha proseguito con il Risotto al peperone chipotle, crudo di gambero, marasche e aspro di curry. Qui la cucina si fa missionaria: il riso, simbolo di convivialità, incontra il fumo e la nota speziata del chipotle, il gambero crudo porta il mare in un territorio di campagna, le marasche aggiungono acidità e freschezza, il curry regala un tocco esotico e pungente. In bocca è un continuo saliscendi, come una predica che alterna carezze e colpi di campana. È un piatto che invita a guardare oltre l’argine del Po, verso orizzonti più lontani.

Il suino nero: la voce della terra
Peppone non resta a guardare e porta in campo la sua bandiera: il Filetto di suino nero di Spigaroli cotto rosato, consistenza di fico e fondo alla senape e miele. Qui c’è tutta la Bassa: la carne rosata, succosa, tenera, racconta la tradizione di una famiglia che ha fatto del maiale un’arte; il fico regala dolcezza e rotondità, la senape e il miele si rincorrono tra piccantezza e morbidezza. È un piatto che non predica, ma urla: è festa di paese, è comizio affollato, è il braciere acceso che unisce la comunità.

I dolci: poesia e memoria
Il momento conclusivo della cena ha visto ancora una volta il dualismo tra i due mondi. Da una parte la Peca con Prugne in due preparazioni, mascarpone, crumble ai cereali e polvere di ibisco: un dolce che vive di leggerezza e di contrasti, in cui la dolcezza del frutto si veste di note acide e floreali, mentre il crumble aggiunge croccantezza. È poesia pura, un dessert che si gusta a occhi chiusi, come una meditazione. Dall’altra la Corte Pallavicina con la Mousse di latte su una cialda di grano del miracolo e composta d’uva fragola: il latte, alimento primordiale, diventa soffice e cremoso; la cialda porta con sé la memoria dei campi e del lavoro agricolo; l’uva fragola restituisce il profumo delle vendemmie e delle merende d’infanzia. È un dolce che non ha bisogno di spiegazioni: parla il linguaggio universale della semplicità, quello che tutti riconoscono come casa.


Conclusione: il miracolo del dialogo
La cena a quattro mani tra Portinari e Spigaroli, con la complicità di Lorenzo Chierici, attento supervisore, ha dimostrato che l’alta cucina può essere dialettica, confronto, racconto. Due linguaggi diversi – l’eleganza concettuale de La Peca e la forza terragna dell’Antica Corte Pallavicina – hanno trovato un terreno comune, trasformando l’opposizione in armonia. Come Don Camillo e Peppone, i due mondi restano inconciliabili sulla carta, ma si scoprono complementari nella realtà. Perché la grazia senza la sostanza rischia di svanire, e la sostanza senza grazia rischia di farsi muta. Insieme, invece, creano un’esperienza che resta nella memoria, come una pagina di Guareschi: semplice, ironica, e profondamente umana.
