Lo Paller del Coc non è un ristorante nel senso consueto del termine. È una casa. Anzi, una cucina con una sola tavola.
La storia
Il tempo si scioglie piano, come burro caldo in una padella silenziosa. E mentre fuori le montagne del Pallars Sobirà si stiracchiano nell’aria tersa, dentro una casa dai toni aranciati, c’è una cucina che non è solo luogo di cotture e vapori, ma un teatro dell’anima. Lì, la fiamma non serve solo a cuocere, ma a raccontare. E quella fiamma è tenuta viva da Mariano Gonzalvo, un uomo che ha trasformato il gesto quotidiano del nutrire in un atto di poesia rurale, di resistenza gentile contro il rumore del mondo.

Siamo a Surp, un minuscolo borgo incastonato come una pietra preziosa nei Pirenei catalani, dove il tempo ha imparato a camminare più piano e dove tutto, anche il gusto, prende il ritmo della terra. È qui che Gonzalvo, già docente e direttore per quindici anni alla scuola Hofmann di Barcellona, e la compagna di vita e visione, Sílvia Valls, hanno dato forma a Lo Paller del Coc. Una casa, un sogno, una sola tavola: il loro modo di raccontare la vita attraverso la cucina e l’accoglienza. La storia d’amore tra questi due spiriti liberi ha inizio proprio con una fuga: da Barcellona al silenzio. “Abbiamo adattato le nostre professioni al tipo di vita che sognavamo”, racconta Mariano a La Vanguardia. Lui ha portato con sé un bagaglio di tecnica e pensiero culinario raffinato; lei, terapista olistica, ha messo in valigia la capacità di ascolto, di cura, di presenza. Insieme hanno costruito un microcosmo gastronomico che si prende cura, che nutre in profondità. Che va ben oltre il piatto.

Lo Paller del Coc non è un ristorante nel senso consueto del termine. Tutto ruota attorno a quel grande tavolo posto proprio accanto ai fornelli, in un interno dominato da un arancio caldo che sa di focolare. Non c’è sala, non c’è distanza tra cuoco e commensale. I piatti non vengono solo serviti, ma sussurrati, spiegati con la calma di chi ha scelto di vivere secondo le stagioni e non secondo i turni. C’è un solo menu, che si rinnova come le foglie nel bosco. Non ha la pretesa della sorpresa ad ogni costo, ma l’umiltà sapiente dell’armonia. È un menu che cammina con l’estate e si scrolla l’inverno dalle spalle. Per 70 euro si entra in un piccolo viaggio sensoriale dove nulla è superfluo, nulla grida. Tutto è costruito con rispetto e profondità, in un equilibrio che commuove. L’inizio è un boccone di pecora affumicata che ha il sapore del camino e del pascolo. Poi arriva una trota del Pireneo con crescione e aglio selvatico, che racconta i fiumi e le erbe che crescono libere. La melanzana incontra la soia e la sgombro in un dialogo di levità; la carn de bèstia viva, antico stufato di pastori, parla invece con la voce roca della tradizione, con quella coda di agnello che porta con sé secoli di abitudini e carestie.

Segue un collo d’agnello farcito con fave e tartufo, e ancora: asparagi con basilico e formaggio affumicato del Serrat, colmenillas ripiene di prosciutto e pancetta, piselli con butifarra negra e trippa di baccalà. E poi, il piatto che stupisce per delicatezza: tendine di puledro con carota e succo di ribes nero. Chiude il cerchio un'infusione di funghi e aneto, la cuajada di capra con sciroppo di pino, e un arnadí, dolce di zucca e mandorle che sa di infanzia e di autunno. Ogni elemento è lì per un motivo. Non ci sono effetti speciali, non c’è lusso da vetrina. C’è piuttosto la poesia della semplicità eseguita con maestria. Un asparago diventa un inno alla primavera, una crema di pino evoca la brezza del sottobosco. Lo stesso Gonzalvo lo dice con fierezza: alcuni clienti si aspettano una raffinatezza convenzionale, ma trovano invece qualcosa di più raro: una raffinata essenzialità. Tutto è cucinato, tutto è vissuto. E tutto ha senso in quel piccolo universo dove il lusso è avere il tempo di parlare, condividere, conoscere gli altri alla tavola. Dove ogni piatto è spiegato dopo essere stato mangiato, perché prima viene il piacere, poi il sapere. E dove la caricatura di una cucina frenetica appesa al muro fa sorridere, ricordando a tutti che sì, un altro modo di fare ristorazione esiste.

Lo Paller del Coc è, in fondo, un manifesto silenzioso. Controcorrente, coerente, umano. Un invito gentile a rallentare, a lasciarsi attraversare da un sapore, da un silenzio, da una trippa di baccalà che non chiede altro che essere ascoltata. E chissà, forse anche ricordata.