Con coraggio, emozione e stile, Pompili racconta cinquant’anni di vita e carriera, restituendo dignità alla sala e all’ospitalità, nel giorno che trasforma un dolore privato in un inno collettivo alla rinascita.
Il libro
Non è una semplice autobiografia. Nato Oste, il primo libro di Piero Pompili, è un’opera densa, intima e profondamente umana, capace di commuovere fin dalle dediche iniziali. Il libro è uscito il 22 aprile scorso, una data che non è casuale: è lo stesso giorno in cui, nel 2018, Pompili ha perso il compagno di una vita, Arnaldo Laghi, cuoco dell’Osteria Numero Sette e figura centrale nel percorso personale e professionale dell’autore.“Questo non sarà più il giorno in cui ha vinto il cancro, ma il giorno in cui abbiamo vinto noi”, scrive Pompili. Direttore di sala del celebre ristorante Al Cambio di Bologna, Piero Pompili ha firmato un testo-racconto dei suoi primi cinquant’anni: Nato Oste (pubblicato da Maretti Editore) è una riflessione lucida, elegante e appassionata su cosa significhi accogliere. È un atto d’amore per l’ospitalità, una dichiarazione di intenti, un manifesto per restituire dignità e centralità alla sala, in un’epoca dominata dalla figura preponderante dello chef.

Protetto da quell’aplomb raffinato e affinato in anni di esperienza ad altissimo livello, Pompili si spoglia del ruolo per raccontare la propria verità: una vita spesa nell’ascolto degli altri, ma anche segnata da una perdita dolorosa. Ma Nato Oste non è solo una storia privata. È anche una provocazione culturale: con stile e determinazione, Pompili riporta in primo piano la figura dell’oste, del maître, del cameriere nel senso più alto del termine. Un mestiere che per lui è vocazione, mai solo professione. Marchigiano di nascita, bolognese d’adozione da oltre trent’anni, Pompili ripercorre l’intero arco della sua formazione: dall’infanzia in una famiglia che gli ha trasmesso il rispetto per il lavoro, alle prime stagioni negli hotel della costa adriatica durante le vacanze scolastiche. E poi gli incontri decisivi: Pia Passalacqua, Stefano Bonilli, Enzo Vizzari, Fulvio Pierangelini. Fino a quello più importante, con Arnaldo, che ha segnato per sempre la sua vita e visione.

Già dai primi anni 2000, con gli pseudonimi Muccapazza e Il Gastronomo Riluttante nei forum del Gambero Rosso, Pompili è stato uno dei pochi a rivendicare la centralità dell’accoglienza. Ha scelto con coerenza i propri segni distintivi – dalla giacca sartoriale doppio petto negli anni ’80, all’uso del linguaggio nei congressi e nei media – sempre con un solo obiettivo: dimostrare che la gentilezza consapevole è il vero gesto rivoluzionario nella ristorazione di oggi. Con questo libro, uno degli osti più noti e rispettati del panorama nazionale decide di raccontarsi senza reticenze. E nel farlo, consegna al lettore una testimonianza lucida, emozionante e necessaria. Perché la ristorazione del futuro non sarà fatta da chi si limita a voler stupire, ma da chi sa accogliere con intelligenza, umanità e misura. Lo abbiamo intervistato.

“Nato Oste” è un titolo forte. Da dove nasce?
Il titolo di questa autobiografia ha due significati. Il primo è legato alla figura tipica dell’oste bolognese: un personaggio centrale nella città, cantastorie e figura carismatica, oggi sempre più raro. È un modo per riportare attenzione su una professione che rischia di sparire, impoverendo Bologna non solo gastronomicamente, ma anche culturalmente. Il secondo significato è più personale: ho iniziato a servire ai tavoli a 13 anni, subito dopo le medie, facendo stagioni estive negli alberghi della costa adriatica. A quell’età, non potevo che nascere oste. Non sarebbe potuto chiamarsi diversamente.

Molti ti considerano un visionario della sala. Ti riconosci?
Mi onora e mi lusinga, ma non sta a me dirlo. Quello che posso dire è che in questo mestiere serve coraggio: coraggio di cambiare, di evolversi, di adattarsi ai tempi. Come la cucina, anche l’accoglienza è in continua trasformazione. La mia esperienza in sala mi ha dato lucidità e senso pratico, forse più di quanto accada a tanti chef che inseguono un sogno, ma spesso dimenticano la sostenibilità, il personale, i clienti. La mia speranza è che in futuro sempre più ristoranti siano gestiti da osti, non solo da cuochi. E che si torni a mettere le persone al centro.

Nel libro parli spesso di discrezione. Un valore oggi raro.
La discrezione è sempre stata una virtù della sala. Ma oggi, forse, dovrebbe essere riconsiderata. Viviamo un momento storico delicato: la sala italiana attraversa una crisi profonda, e nessuno ne parla. Siamo troppo silenziosi. Forse dovremmo fare un po’ più rumore, attirare l’attenzione. Anche perché oggi nessuno vuole più fare il cameriere. E questo è un problema enorme.
Cosa vorresti che il lettore portasse via da questo libro?
Una parola sola: amore. Amore per Arnaldo, il mio compagno scomparso nel 2018, con cui ho condiviso 22 anni di vita e che mi ha insegnato tutto. Amore per la mia famiglia, per gli insegnamenti dei miei genitori che mi hanno dato le basi per affrontare ogni sfida. Amore per il mio mestiere, che non ho mai vissuto solo come una professione. E, infine, amore per Bologna, che mi ha accolto, adottato e dato la possibilità di riportare alla ribalta la cucina tradizionale bolognese. Il complimento più bello che ho ricevuto dopo l’uscita del libro è stato che ho riportato umanesimo e umanità nella ristorazione. Ecco, io ci credo davvero: un ristorante, prima ancora che di piatti, è fatto di persone. Senza persone, non esistono piatti, né sorrisi in sala. Solo ripartendo da qui può nascere una nuova ristorazione.
