Marco Colognese stila la sua lista dei “magnifici 12” per il 2024, con una premessa essenziale: c’è un mondo intero attorno a un piatto. E allora, quel che non dobbiamo dimenticare -o, peggio ancora relegare in secondo piano come qualcosa di scontato- è la dimensione del ristorante oltre la cucina. Qui i suoi assaggi più entusiasmanti.
È passato anche il 2024. A cavallo tra un anno e l’altro i social sono gremiti di dichiarazioni, buoni propositi, citazioni, suggerimenti pescati tra gli elenchi dei guru del web, tutti immancabilmente di una superficialità disarmante. La stessa che ormai regolarmente ammanta o - meglio ancora - ammorba questo nostro mondo del food, ridefinendone al ribasso contenuti e contorni. È abitudine il non approfondire, il replicare a oltranza frasi fatte senza un minimo di cognizione di causa, come un ritornello di canzoni tutte uguali. Nel frattempo il pubblico cambia, cambiano i gusti e noi non ce ne accorgiamo: ‘Il fine dining è morto’ è uno dei proclami più diffusi. Senza realmente offrire una definizione di cosa sia davvero adesso questo fine dining. ‘Sono gli stellati’, dice qualcuno, ma la Michelin, con tutte le sue lacune, spesso lapalissiane, è l’unica guida che sposta qualcosa. Le altre, tutte, rappresentano poco più di un rispettabile, elegante rituale di autoreferenzialità che coinvolge ristoratori e autori in una festicciola da celebrare una volta ogni dodici mesi: qualche titolo sui giornali locali ed è tutto finito, perché le informazioni che la gente cerca (ed eventualmente trova), le pesca ormai altrove sul web. In realtà, il fine dining non è affatto morto, si sta semplicemente ribellando a una definizione priva di senso. Si stanno estinguendo, invece, com’è giusto che sia, tutti quei ristoranti senza identità, quelli che scimmiottano i grandi senza averne le doti, quelli che non sanno fare i conti. Quelli che guardano prima a sé stessi e poi all’ospite, perché non è proprio così banale far star bene chi si siede a tavola e – soprattutto - non ha a che vedere solo e soltanto con quel che in tavola accade.
C’è un mondo intero attorno a un piatto: certo, c’è chi lo concepisce, sicuramente chi poi lo realizza. Quel che non dobbiamo dimenticare o peggio ancora relegare in secondo piano come qualcosa di scontato, è il fatto che un ristorante è un sistema che può funzionare o meno in base a com’è orchestrato. Dietro a una sequenza di piatti, quelli che (troppo) spesso ci appaiono come il fulcro di un’esperienza, c’è una grande organizzazione, qualcosa che funziona in modo tale da non lasciare spazio all’improvvisazione e allo stesso tempo fa avvenire tutto con grande naturalezza. Del resto, non è una novità che dietro a una cucina eccellente ci sia una catena sequenziale di gesti e attenzioni che vanno dal primo sorriso di chi ci accoglie all’ultimo di chi ci congeda. Ma provate a leggere un articolo o una recensione qualunque, (compresi i miei, si intende): quanto spazio ha la cucina? E la sala, invece? Ecco, in quel fine di fine dining, questo dev’essere compreso e ricompreso. Senza dimenticare che si può stare bene davvero ovunque, anche in un ristorante senza stelle, né pianeti. Detto questo, tra i trecentouno ristoranti di quest’anno, ho amato su tutti l’energia prorompente di Michelangelo Mammoliti a La Rei Natura e la fantastica concentrazione dei piatti di Begoña Rodrigo a La Salita di Valencia, guarda caso in entrambi i casi in gran parte vegetali. Infine, mi ha colpito la dose esuberante di personalità che continua ancora a caratterizzare la cucina di Massimiliano Alajmo a Le Calandre. Certo la notevole cucina, ma soprattutto i meravigliosi, diversi stili di sala dell’Imàgo dell’Hassler con Marco Amato e all’Acquolina con Benito Cascone a Roma, così come Mattia Piotto alla Trattoria Contemporanea di Lomazzo.
Sul fronte degli abbinamenti, esperienze al massimo le ho vissute con lo strepitoso pairing analcolico, affiancato a un grande pranzo, da Hiša Franko a Kobarid, frutto della bravura del bar manager Davide Rovagnati che affianca Anja Skrbinek; e ancora con i grandi calici proposti da Davide Macaluso, direttore F&B del Principe di Piemonte ma anche Sommelier de Il Piccolo Principe di Viareggio. E il Piccolo Principe, con Giuseppe Mancino, è anche tra i ristoranti che vedrei bene con una stella in più, così come il già citato Mammoliti, Agli Amici dei fratelli Michela (magnifica sala anche la sua) ed Emanuele Scarello a Udine e quel baluardo di bontà di mare che è Antica Osteria Cera a Campagna Lupia, con un Lionello in gran forma. Esperienze emozionanti lassù a Montemonaco al Tiglio da Enrico Mazzaroni, da Sustanza a Napoli con un Marco Ambrosino che prima o poi avrà le soddisfazioni che si merita, da Famiglia Rana con il talento di Francesco Sodano, la voglia di giocare e di mettersi in gioco di Terry Giacomello e il sorriso sornione di Stefano Mazzone al Quisisana, tempio caprese dello star bene. Ancora, fuori dal mondo, la bellezza de La Trota dei fratelli Serva a Rivodutri e infine la cena numero trecento in quel posto incantevole che è InViaggio a Villa Irma, da Monica Wieser e Claudio Melis.
I giovani? Bravissimi Antonio Lerro al Riva a Numana, Federico Rovacchi di Baita piè Tofana a Cortina e Martin Lazarov al Principe di Belludia a Noto, ai quali non mancherebbe proprio nulla per la stella; oltre ad Andrea Leali di Casa Leali, finalmente invece riconosciuto come si deve; mentre sarebbe tempo che Michelin almeno si accorgesse di quel luogo incredibile che è Coro a Orvieto, con il bravissimo Ronald Bukri in cucina. E poi, finalmente, un bel posto in provincia di Rovigo, bellissimo a dire il vero, come Bernardo Cucina Temporanea, che racconterò presto. Non è stato affatto facile scegliere i 12 piatti del 2024: il criterio, come al solito, al di là di voler raccontare chi (ancora) non ha stelle, anche se un paio sulla dozzina sono comunque ‘firmati’ da cuochi star, è stata la gola, in tutte le sue espressioni: ecco anche perché, dato che le adoro e ormai popolano i menu da nord a sud, ci sono due animelle (va da sé, diversissime).
La paella da Llisa Negra a Valencia – Quique Dacosta, Sara Martín
Poco meno di una cinquantina sono stati i ristoranti che ho provato fuori dall’Italia. Il mio tasso d’amore per la Spagna è salito alle stelle con un pranzo sopraffino da Llisa Negra. È un progetto di Quique Dacosta, basato sui migliori prodotti dei mercati - a partire da Dénia - e sulle cotture, tra griglia, brace e fiamma diretta, con l’uso dei legni più diversi. La capocuoca è Sara Martín e questo è l'unico ristorante del centro di Valencia con un paellero per la cottura a legna. Indimenticabile, l’ho vista cuocere dietro alle grandi vetrate, tra fuochi e fiamme. Se la preparazione è uno spettacolo, il gusto non è da meno, è buonissima. La ricetta è quella tradizionale, con pollo, coniglio, garrofón, fagiolini, salsa di pomodoro e zafferano. Dacosta ha voluto introdurre una piccola modifica che non influisce sul sapore, legata al tempo di cottura e alla consistenza. Il brodo viene preparato in anticipo con tutti gli ingredienti, in modo che carne e verdure risultino più croccanti e non troppo cotte. Una delizia assoluta.
Good morning in Catania – Concezione Restaurant – Manuel Tropea
Defilato rispetto al centro, il locale di Manuel Tropea è uno di quelli che appaiono poco e raccontano molto. Il piatto di questo giovane cuoco mi ha colpito per la sua intensità: l’idea è venuta a Manuel durante i lavori di allestimento del ristorante: “non riuscivo a dare una mano e stavo lì ad aspettare, così mi è venuto in mente di rappresentare la visione di un turista che arriva a Catania. Ne vedevo tanti, felici ma anche molto confusi, spaesati da una città caotica. Allo stesso tempo erano incuriositi di addentrarsi vanèdda dopo vanèdda (le viuzze) e di scoprirne odori e sapori. Allora ho pensato al loro punto di vista di visitatori con luoghi come la pescheria, il mercato, il lungomare.” In sala non si racconta subito quello che c’è nel piatto, che appare come una specie di nuvola bianca in cui scavare con un cucchiaio. Quel che si trova è una bellissima sorpresa, dal gusto potente. Alla base ci sono un battuto di fichi d’india, una gelée degli stessi e la polvere di pala. Ancora, un cremoso di fichi (gli altri), glassa di pomodoro e cedro candito. La parte sapida, a bilanciare la dolcezza dei frutti, arriva dalle vongole ‘schiodate’, molto carnose, cotte nella loro acqua. A ricoprire tutto una cagliata di mandorle amare su cui viene posta una polvere di bucce di melanzane. Il risultato è di stupefacente armonia.
Variazioni di agnello laticauda: costina arrosto, pancia, polpetta fritta con mentuccia e pecorino, soffritto – Locanda Radici a Melizzano (BN) – Angelo d’Amico
La bellezza di certi luoghi è data anche dal loro essere distanti da tutto. Non troppo, ma tanto da godere di una posizione come quella del Sannio Beneventano, una zona della Campania dove è la natura a dominare il paesaggio. In quest’area, tra prodotti di estrema qualità e grandi vini, è tornato Angelo D’amico, cuoco di belle, variegate esperienze in Italia e all’estero (con Alain Passard, ad esempio). Gestisce il suo accogliente ristorante con il fratello Giuseppe, che oltre a essere ottimo maître e sommelier è un ingegnere energetico e ha creato un modello matematico in grado di identificare l’impatto ambientale di ciascuno dei piatti del menu. E a proposito di piatti, l’agnello Laticauda, una razza locale che prende questo nome dalla larghezza della coda, è un piccolo capolavoro. Proposto in diverse preparazioni, lascia un ricordo che crea acquolina anche a distanza: golosissime le costine arrosto alla lavanda; poi la morbida, succulenta pancia, la polpetta fritta aromatizzata con mentuccia e Pecorino che ne sbocconcelleresti una decina, il soffritto con i dadini di quinto quarto, profumatissimo. Che splendido ricordo!
Spaghettoni, scampi, manteca, acciughe e maggiorana – Il Ristorante - Niko Romito al Bvlgari Hotel Roma – resident chef Emilio Di Cristo
Roma di suo è una città che non può lasciare indifferenti. Sia amore eterno oppure no - nel mio caso lo è - Roma amplifica la grandiosità e con essa l’impatto di luoghi come questo hotel con la sua eleganza paradigmatica. Dalla terrazza al quinto piano, sulla quale si sviluppa il ristorante, si può godere di una vista privilegiata sul Mausoleo di Augusto. Qui, grazie anche alla sorridente professionalità del personale di servizio, regna sovrana un’informalità che mette chiunque a proprio agio. L’offerta gastronomica, sviluppata in esclusiva per Bulgari attorno al concetto di cucina italiana contemporanea da uno chef come Niko Romito che ne rappresenta l’emblema, è curata dal giovane resident campano Emilio Di Cristo. Il risultato si traduce in piatti dal gusto universale, mai compromissori però, nei quali tecnica e ricerca si esprimono tanto attraverso l’intensità del gusto netto, diretto, pulito, quanto rivelandosi sorprendentemente leggeri. Basta assaggiare i voluttuosi spaghettoni con scampi, manteca, acciughe e maggiorana il cui unico difetto è quello di sparire con una velocità anomala. Fortuna che c’è quel gran pane per fare scarpetta.
Bottoni di erbette, brodetto ristretto di persico sole, persico reale marinato, burro allo zafferano e lenticchie soffiate – Ristorante Enoteca Il Molo a Passignano sul Trasimeno (PG) – Riccardo Fogli
Che bella atmosfera si vive in questo ristorante della famiglia Pellegrini, affacciato sul lago Trasimeno! Sulla breccia ormai da più di quarantacinque anni, nel tempo sono arrivati in sala Andrea, oste brillante figlio dei fondatori Gianfranco e Raffaela e in cucina il loro genero Riccardo Fogli. Sono tutti ancora lì ad accogliere col sorriso, un bell’assortimento di vini e piatti uno più buono dell’altro, con un valore aggiunto non da poco, perché si tratta di proposte che recuperano vecchie ricette locali e il pesce di questo lago che è uno tra i più puliti d’Italia. È il caso dei bottoni ripieni di erbette, serviti in un brodo ristretto di persico sole, con persico reale marinato, burro allo zafferano e lenticchie soffiate: con una bellissima concentrazione di sapori, un boccone dopo l’altro rivelano una mano precisa e un’esecuzione perfetta. Uno di quei posti dove si sta proprio bene, a tutto tondo.
Rombo al vapore con gelatina ai funghi e fiori eduli, mandarino, scorzonera, tartufo e salsa bernese – La Rocca a Castelfalfi (FI) – Davide De Simone
1100 ettari tra campagna, vigneti, uliveti e boschi, un resort di lusso diffuso che si snoda tra un borgo medievale rimesso a nuovo, stanze moderne, grandi eleganti ville e panorami di incredibile fascino. Castelfalfi si trova in una posizione invidiabilmente strategica tra Pisa, Firenze e Siena. Punta di diamante della ricca offerta di ristorazione è La Rocca, all’interno del castello medievale nel borgo: da quassù lo sguardo arriva fino a Volterra. Ambiente di grande, classica eleganza e ambizioni ben riposte, secondo me, nella cucina dell’executive Davide De Simone, siciliano d’origine, il quale unisce un approccio dal calore mediterraneo e un’ottima tecnica contestualizzandoli in piatti dall’impatto particolarmente felice. Accade ad esempio nel rombo al vapore servito con gelatina ai funghi e fiori eduli, mandarino, scorzonera, tartufo e salsa bernese, piatto la cui intensità cresce a ogni forchettata, tra la nobile grassezza del pesce, la parte vegetale a mitigarla e la salsa a legare il tutto in modo preciso.
Crescentine, salumi e formaggi - Locanda CasaMerlò, Calderara di Reno (BO) - Dario Picchiotti
I pregiudizi esistono in ogni ambito dello scibile. Non fa eccezione quello del critico gastronomico che cerca sempre di farsi stupire con piatti che portano nomi rutilanti e contengono ingredienti sconosciuti, evitando con cura tutto ciò che appare come cucina popolare. E non c’è luogo più popolare (e assolutamente godurioso) di questa nuova creatura di Dario Picchiotti, Francesco Tonelli e Nicola Barilli, locanda e ristorante di campagna da numeri dove si sta benissimo dall’inizio alla fine. Ed è proprio l’inizio che mi ha folgorato sulla via del gusto, con le migliori crescentine di sempre, di una paradossale, meravigliosa leggerezza senza pari: fragranti, friabili, saporite, da divorare accmpagnandole a una selezione di salumi e formaggi anche loro di prim’ordine (coppa di testa e salame Franceschini o Igp di Felino, prosciutto di Simonini, mortadella Felsineo Selezione Tour-tlen, squacquerone della Centrale del latte di Cesena o di Mambelli) e un’eccellente giardiniera autoprodotta. Ottime pure le tigelle, naturalmente. Per le ruote alla vodka, piatto simbolo di CasaMerlò, tagliatelle al ragù, carne alla griglia e per tutto il resto, tornate perché ne vale la pena. Ah, la carta dei vini: è ragguardevole anche lei.
Trota, fragole sott'aceto e fresche, ortica – Ca’ Mia ad Alserio (CO) – Simone Tanzi
Arrivare in Brianza dalla vicinissima, frenetica Milano mette di buon umore, perché in mezzo al verde ci si dimentica subito di traffico e caos. Ca’ Mia è uno di quei ristoranti che vale la pena scoprire: originato da un sogno coltivato in famiglia a partire dal padre Antonio, che ha portato Simone Tanzi a diventare cuoco, facendo esperienza tra gli altri con Georges Blanc, è uno scrigno di sorprese gastronomiche, tra le quali un sontuoso pâté en croûte rielaborato con ingredienti locali. Non manca un’egregia selezione di bottiglie curata da Alessandro, fratello dello chef. Francia e Italia, classico e contemporaneo: i piatti di Simone convincono per originalità. Io ne ho amato in particolare uno, di grande freschezza. Come racconta Simone: “L’idea era quella di usare pochi ingredienti, come per la maggior parte dei nostri piatti. La trota è semplicemente cotta a vapore con un filo di sale, per lasciarla il più nature possibile ed esaltarla poi con il fondo di pesce. Ortiche in crema e saltate a fuoco vivo e infine a completare fragole fresche e fragole sott’aceto dell’anno scorso per condire il tutto.” Con un risultato decisamente convincente, di estrema pulizia.
Animella di vitello, salsa teriyaki e ricci di mare – Hostaria Ducale a Genova – Daniele Rebosio
Hostaria Ducale è in salita San Matteo, letteralmente a due passi dalla grande piazza de Ferrari. Il patron Enrico Vinelli ha voluto realizzare un locale raccolto, sobrio e insieme elegante nei suoi dettagli. Nel cuore di Genova con Genova nel cuore, con un giovane ma già esperto chef come Daniele Rebosio, il quale attraverso i suoi piatti racconta questa meravigliosa città, ispirandosi anche grandi personaggi come Fabrizio De Andrè. Liguria e oriente ricorrono, tra ingredienti e ispirazioni, come in questo piatto, senza sale aggiunto, che mi è piaciuto da subito e ho assaggiato più volte, rimanendone definitivamente sedotto. L’animella di cuore viene prima sbollentata e privata della pellicina, passata nella maizena e cotta nel burro chiarificato. Il risultato è una leggera invitante crosticina esterna che racchiude la carne fondente. La glassatura è realizzata con una salsa teriyaki a base di soia, miele autoprodotto e arancia pernambucco ligure; il determinante tocco finale, prima della ricca nota dei ricci, arriva da una bisque classica montata al burro che Rebosio realizza secondo disponibilità con gamberi rossi o rosa oppure con cicale di mare.
Animella di vitello alla brace, ramassin al barbecue, more di gelso fermentate, punte di cicoria e barbabietola di Chioggia sottaceto – Radici Ristorante in Vigna – Costigliole d’Asti (AT) - Marco Massaia
Uno dei luoghi più affascinanti che ho visitato quest’anno, che conferma quanto il contesto sia importante per un ristorante che abbia delle ambizioni di successo. In questo caso si tratta di Langhe e Monferrato e di un sistema di splendida accoglienza che comprende Le Marne Relais con l’azienda agricola Mura Mura. Le 5 stanze della Dimora dei Poeti e le 8 della Dimora degli Artisti, ognuna dedicata a personaggi e opere, sono una più bella dell’altra. Guido Martinetti e Federico Grom hanno affidato la ristorazione a Marco Massaia, torinese, laureato in giurisprudenza e convertito con gioia alla cucina con diverse importanti esperienze, tra cui quella con Vittorio Fusari. Il suo è uno stile diretto, naturale, con un istinto molto ben governato e mirato al sapore. Notevole la sua animella, passata alla brace dopo la rosolatura e laccata in un fondo di vitello ‘tagliato’ con aceto di aglio orsino. La rapa di Chioggia sottaceto e una cicoria appena saltata danno una nota leggermente più amaricante. Alla base una raffinata salsa barbecue fatta con le prugne di qui, le ramassin. Sopra, more di gelso fermentate e petali di cosmea. Una vera finezza.
Passatelli, koji, cioccolato e camomilla – Osteria V a Trebaseleghe (PD) - Andrea Rossetti
Andrea Rossetti è un cuoco nerd nella sua accezione più felice: difficile incontrare un entusiasmo come il suo di fronte alla ricerca e alla sperimentazione, tra fuochi e tecnologia. Il laboratorio di cucina veneta d’avanguardia che porta avanti è Osteria V, creatura voluta dai fratelli Federico e Filippo Pojana accanto all’Antico Veturo, il loro locale ‘da numeri’, fatti comunque molto bene. Sono piatti sempre molto pensati, quelli di Rossetti: mai velleitari, dalla personalità significativa. E sono buoni, armonici, intensi, proprio come questi passatelli, arrivati per caso da un’intuizione: “Stavamo lavorando su del garum di granchio blu. A un certo punto abbiamo messo un impasto di koji e granchio blu nel tritacarne e ne sono usciti quelli che sembravano dei passatelli. Eravamo appena tornati dalla Collina dei Piaceri, l’evento di Fausto Fratti in terra romagnola: è nata un’associazione di idee, così abbiamo chiamato il nostro amico Paolo Bissaro e gli abbiamo chiesto la ricetta dicendogli che non dovevamo fare dei passatelli, perché a noi interessava lavorare con riso e koji. Abbiamo quindi voluto cambiarne la connotazione e da primo piatto è diventato un dolce. Siccome avevano questo profumo di funghi e terra, ci abbiamo abbinato un brodo di caramello profumato alla camomilla, perché l’avevamo già usata in un piatto con i porcini e stava molto bene. Sopra, la parte di cioccolato fondente intenso, un Equador al 76%, a fare da trait d’union.” Il risultato? Al di là della combinazione a dir poco originale, è di stupefacente bontà.
Pasta e patate (gyoza, brodo, Provolone del monaco) – ConTanima al Parkhotel Laurin a Bolzano – Dario Tornatore
Ultimo solo in ordine di comparizione, per questioni di latitudine, è un luogo-capolavoro, nel grande parco di uno degli alberghi più affascinanti dell’Alto Adige (e non solo), lo storico Parkhotel Laurin a Bolzano, inaugurato nel 1910. Tra il vasto prato inglese, opere d’arte e alberi come sequoie, cedri centenari e pini dell’Himalaya, una meravigliosa serra con il suo giardino d’inverno ospita il fine dining ConTanima. Ristrutturata con gusto, il ghiaino al posto del pavimento, è un’affascinante Glashaus in cui Dario Tornatore, executive dell’hotel, si racconta attraverso piatti che narrano delle sue origini, tra Napoli e Roma, e dei tanti viaggi da chef in giro per il mondo. C’è molta gola in questa personale versione di pasta e patate. Un piatto semplice solo in apparenza, perché richiede tante piccole preparazioni, a partire dalla sfoglia, con metà farina di riso e metà 00. L’impasto viene cotto al vapore, poi steso e farcito con la ricetta classica: “cremosa come si fa a casa mia, in questo caso però usiamo delle patate della Val Pusteria, più compatte e caratterizzate da una polpa più soda.” Il Provolone del monaco dop è sotto forma di crema, il brodo invece è la parte più elaborata: “iniziamo estraendo a freddo il ‘succo’ delle patate pelate, che fermentiamo leggermente per dare una leggera nota acida; lasciamo in infusione le bucce che abbiamo precedentemente fritto, aggiustiamo di sale e il gioco è fatto. Cuociamo i ‘dumplings’ al vapore per circa 3 minuti e poi li scottiamo, glassandoli leggermente con della salsa shoyu di orzo e farro.” Sapete, quando vi viene da chiedere il bis? Ecco.