In molti hanno scritto, raccontato e testimoniato la sua sensibilità per il gusto, il suo genio e sregolatezza nel carattere e il non avere un menu fisso, ma certo si sono fissate nella memoria alcune tappe del suo stile che oggi fanno da pietre miliari della cucina italiana: il ricordo di Cesare Giaccone in una cena irripetibile da Erbaluigia.
Fotografie di Lido Vannucchi
Cesare Giaccone, pensiero e cucina per una sera da Erbaluigia a Pisa
“Papà non era solo le Langhe, papà era in tutto il mondo, amava le Langhe ma ha amato tanto anche la Toscana dove ha lavorato e ha iniziato la sua arte ispirato dal Rinascimento fiorentino. Cucinava per amore, amava la cucina per le materie prime che valorizzava senza grandi cotture o grandi artifici, è stato un cuoco che ha iniziato molto prima degli altri, perché già negli anni 70 cucinava con erbe e selezionava la materia prima tra orti e allevamenti in maniera maniacale. Spero che quello che lui ha fatto nella sua vita non vada perso, perché la sua ricerca di sapori, di cotture e di ingredienti oggi sono molto di moda, ma era un anticonformista e un pioniere che ha anticipato i tempi, e vorrei che la sua visione non venisse dimenticata.”
È così che Elisa Giaccone ha introdotto la cena che si è tenuta venerdì 6 dicembre a Pisa nell’osteria Erbaluigia, un evento fortemente voluto dai proprietari Tatiana Porciani e Fabio Ponzanelli che hanno scelto di omaggiare la memoria di un visionario, Cesare Giaccone, mancato a maggio di quest’anno e che ha lasciato un’importante eredità nella gastronomia italiana, forse non molto raccontata dai media perché appartenente a un’epoca preinternettiana. Ma di sicuro molto conosciuto al di là degli schermi e molto amato da chi lo ha frequentato di persona. Perché sì, ad Albaretto della Torre, un angolo di Langa un po’ defilato rispetto ai percorsi più noti, in tanti sono andati, appassionati gourmet e persino attori e intellettuali (indimenticabili Giorgio Grigliatti, da poco scomparso, e Giorgio Bocca che lo ha voluto anche a cucinare per il matrimonio della figlia). Ai Cacciatori era la sua casa, il luogo in cui era cresciuto coi fratelli e la mamma da cui aveva naturalmente appreso il senso del gusto e i gesti.
Un’infanzia dura tra le colline del dopoguerra dove le famiglie erano abbondanti come la fame da vincere iniziando a lavorare sin da piccoli, proprio come Cesare che a 13 anni, mentre lavorava come muratore in un cantiere di ristrutturazione di una casa, venne notato da un cuoco che lo prese con sé a lavorare in un ristorante di Aosta. E da quel momento non ha più abbandonato la cucina, imparando la classicità ma ascoltando anche la terra. Cesare era così, ogni giorno in cucina c’era una pentola per il brodo, il fondo bruno, e l’immancabile salsa di pomodoro che cuoceva per un’ora e mezzo, e c’erano tutti gli ingredienti che comprava di persona e che cucinava sempre dal fresco. Selezionava ortaggi, carni e nel mese di febbraio – in quaresima – ogni mattino guidava fino al mercato di Savona per comprare il pesce che poi cucinava per la sera nel grano anziché coperto di sale. Era un’epoca in cui non si concepivano gli avanzi del giorno prima, ogni giorno era un nuovo giorno e il lavoro ai fornelli ripartiva da zero.
In molti hanno scritto, raccontato e testimoniato la sua sensibilità per il gusto, il suo genio e sregolatezza nel carattere e il non avere un menu fisso, ma certo si sono fissate nella memoria alcune tappe del suo stile che oggi sono pietre miliari della cucina italiana, da tenere a modello perché distintivi di un gusto attuale e ancora necessario persino per i cuochi più giovani che vogliano indagare la nostra storia e capire che l’atto del cucinare inizia prima di mettersi a fornelli. Tatiana, con la sua indole da storica e appassionata di origini della cucina, incoraggiata dall’amico Carlo Silvestrini, storico cuoco pisano molto amico di Giaccone, ha contattato la figlia Elisa che ha risposto subito con entusiasmo portando con sé non solo le memorie paterne, ma pure i suoi vini che produce anche in quell’ettaro di vigna a La Morra che aveva piantato Cesare e che lei poi gli aveva comprato quando a 22 anni aveva deciso di sganciarsi dal ristorante del padre per dedicarsi a fare la contadina.
“Io amo stare in vigna, curare la terra e le piante, in cantina c’è mia figlia. Il viognier di papà è ancora un fiore all’occhiello, per lui era il miglior vitigno in assoluto, e noi lo vinifichiamo ancora così in purezza. Ma certo nella nostra azienda, Bosco Pierangelo, c’è spazio anche per il nebbiolo e il barolo, emblema di questo luogo”. E i piatti della serata sono stati inevitabilmente accompagnati dalle sue etichette, a dare vita a un viaggio nello spazio e nel tempo di Giaccone, con una sequenza di piatti che Tatiana ed Elisa hanno pensato insieme ripercorrendo alcuni capisaldi dei Cacciatori.
La cena
Dopo un benvenuto con focaccia calda e l’olio nuovo dell’oliveto di Tatiana nella provincia di Pistoia, la cena è iniziata con un’insalatina di erbe selvatiche e aceto di moscato di Cesare (uno dei prodotti più amati dal cuoco che ancora si produce con la stessa cura e gli stessi vini). Un inizio pungente, tra l’amaro e l’erbaceo con le note acetiche a stimolare l’appetito. Segue quindi la celeberrima Patata alla grappa di Romano Levi (uno degli amici più intimi e importanti di Giaccone), paté di fagianella e tartufo bianco. Un piatto del 1981-82 per cui gli ospiti impazzivano e in cui Cesare dimostrava la sua generosità e l’amore per il tartufo bianco che spesso andava a cercare e che più spesso andava a comprare al mercato di Cervere dove conferivano i tartufai di Alba, dal 15 ottobre in poi, perché Cesare sosteneva che i tartufi buoni si formavano solo in autunno già inoltrato.
La patata viene cotta intera in forno con la buccia, e quindi tagliata a metà e spruzzata di qualche goccia di grappa che le conferisce un aroma inebriante e si abbina bene al paté di fagianella che fa da condimento e parte grassa, ponte perfetto con i profumi del tartufo. I due tuberi più amati parificati nella nobiltà di un grande piatto ancora estremamente attuale, nella sua essenzialità. Una piccola curiosità, nel piatto è arrivata una decorazione aggiunta da Tatiana, una falda di porro annodata a ricordare il fazzoletto che Cesare annodava attorno al collo, e a ricordare che questo piatto si può cucinare solo in autunno. A parte, in un secondo servizio, Tatiana risponde alla storia con un piccolo boccone cucinato di suo pugno con gli avanzi del fegato che ha cucinato in un paté alla toscana servito su mela cotogna al posto del consueto pane, perché in certe parti della Toscana è tradizione servire i fegatini con un frutto la cui acidità smorza la parte grassa, come la mela.
Risale al 1983 circa il piatto successivo, la Polenta uovo e porri, con fonduta di parmigiano e tartufo bianco, da mangiare con il cucchiaio che affonda nel centro della fondina e si mescola prima di procedere all’assaggio. L’uovo viene messo crudo sul fondo del piatto e si cuoce con il calore della polenta (di Sobrino) che si cola sopra, quindi i porri di Cervere bolliti in latte e panna, e ancora a strati fonduta di parmigiano per finire con il tartufo. Cremosità che ha anticipato di almeno 30 anni la moda dell’uovo cotto a bassa temperatura con fonduta di formaggio e tartufo. Una semplicità che ancora sorprende e che dimostra la sensibilità verso le materie prime e il modo apparentemente semplice nel trattarle. Tra un piatto e l’altro Elisa si addentra nel racconto di aneddoti del padre, come quella volta in cui lui a 9 anni disse a sua madre che aveva trovato un coniglio morto tra quelli che lei allevava per cucinarli per i cacciatori che andavano a pranzo lì.
La mamma gli disse allora di buttarlo via perché non si poteva mangiare un coniglio morto, ma Cesare la implorò di non buttarlo, e riuscì a convincerla a poterlo cucinare lui, a patto che sarebbe stato l’unico a mangiarlo. E così per una settimana il piccolo Cesare mangiò il suo coniglio, sotto gli sguardi non proprio benevoli dei fratelli che continuarono a mangiare polenta e zucca. Ma alla fine il bimbo confessò alla mamma che il coniglio non era morto per cause naturali, era stato lui a ucciderlo perché era stufo di mangiare ogni giorno polenta e zucca. Ecco perché Cesare odiava la zucca, anche da grande! La sua era una cucina di prodotto, si direbbe oggi, ma quel prodotto era valorizzato da cotture gentili, mai violente o artefatte. Cesare cuoceva le cipolle intere sul sale, poi le svuotava e le frullava con il parmigiano vacche rosse e con quel composto farciva le cipolle. Oppure usava il fondo bruno per condire i ravioli con il parmigiano, e amava alla follia il risotto al pomodoro, il risotto alla cardinale, fatto con la salsa quotidiana, che cucinava però solo per sé o per pochi amici intimi.
E poi arriva uno dei piatti più importanti che ci ha lasciato a memoria sempiterna, l’Agnello alla mo’ di Gianni Gallo (pittore e amico di Cesare, a significare quanto certi suoi piatti fossero pensati e cucinati ad hoc per i suoi ospiti) con carciofi alle erbe. Forse uno dei piatti che più sono rimasti impressi nella memoria, per la carne semplicemente condita con sale e pepe e messa a cuocere sullo spiedo, quindi condita con un trito di erbe selvatiche fresche (il rosmarino è la pianta di Cesare, irrinunciabile in ogni sua preparazione) e olio di polla che versava sulla carne tagliata un attimo prima di servirla. Qui viene rifinita da salsa verde (con il rosmarino) e dei carciofi cotti interi, oltre a delle erbette selvatiche saltate in padella, tocco personale della cuoca Tatiana. Elisa ha portato dei piccoli paioli di rame che appartenevano al papà appositamente per preparare lo zabaione alla don Camera, un personaggio cruciale per la sua vita, già parroco di Albaretto e curato della piccola comunità di Cerreto Laghi che all’alba era solito preparare lo zabaione sul fuoco a legna in un pentolino di rame, proprio come accadeva anche ai Cacciatori.
Tuorli sbattuti con lo zucchero, poi generosamente irrorati di vino moscato di Saracco e via sul fuoco a montare il composto che in pochi minuti si fa denso e spumoso e arriva in sala così, ancora fumante nel paiolo. Un servizio al tavolo emozionante, a cui si accompagna la torta di nocciole che Cesare aveva scoperto nel 1975 da padre Eligio che era maestro nel preparare la sbrisolona. Lui sostituì le nocciole langarole alle mandorle, pur mantenendo l’impasto a base di farina bianca e farina di mais, ottenendo un dolce friabile dal sapore di nocciola tostata davvero irresistibile, anche nell’accompagnamento con lo zabaione e che Elisa ricorda che durante l’autunno arrivavano in tavola come piccoli bocconi incastonati nell’involucro fogliaceo essiccato anch’esso edibile. Il gran finale è riservato al Bonet, che Tatiana interpreta con la sua visione, mettendo meno zucchero e un accento più marcato sull’amaro, un’intenzionalità più toscana e contemporanea che nulla toglie alla piacevolezza e alla golosità.
Siamo certi che questo evento non resterà isolato, il desiderio di Elisa è quello di continuare a raccontare il padre attraverso il gusto della sua terra, il suo genio e sregolatezza che ha arricchito la gastronomia italiana e a cui siamo molto debitori. La storia continua.