“Sostenibilità è lavorare con fornitori molto vicini a noi, limitando i viaggi dei mezzi, senza andare a prendere un prodotto all’estero o anche da fuori regione, per quanto buono sia.” Ha portato una nuova stella in Emilia facendo vera cucina di territorio ed ora racconta la sua filosofia: intervista a Mattia Trabetti di Alto, che punta sul 100% Made in Modena.
Foto di Fabrizio Cicconi
Era nell’aria che Mattia Trabetti di Alto potesse salire sul palco a Modena il 5 novembre: così è accaduto. Su queste pagine chef e ristorante sono già stati raccontati e di certo non è stata una sorpresa, soprattutto perché l’azione di concerto attorno al locale al quarto piano del confortevole hotel Executive di Fiorano, da dove si percepisce nitida la ‘musica’ dei motori Ferrari, è sempre stata ben congegnata.
Mattia, veneto di Negrar, classe 1989, è – come lui stesso si definisce – un ragazzo abbastanza timido: “Non mi sono mai atteggiato a rock star e non ho certo l’intenzione di farlo adesso. Sono sempre in cucina, amo stare in mezzo alla natura, con i miei cani. In fondo l’amore per l’aria aperta è quello che cerchiamo di trasmettere qui, insieme a un concetto di cucina sana.” Abbiamo fatto una chiacchierata con lui, intorno al bel momento che sta vivendo e al presente di Alto.
Vi aspettavate la stella Michelin?
Sicuramente è sempre stata una cosa voluta, ma non abbiamo puntato tutto solo sull’idea della rossa, ciò che ci riempie d’orgoglio è il significato stesso della stella “vale la sosta”, perchè è quello che abbiamo sempre sognato: abbiamo iniziato questo progetto anzitutto per promuovere il territorio e quest’anno siamo riusciti finalmente a realizzare un menù, Modena Safari, veramente 100% made in Modena; lo stesso abbiamo fatto con Emilia Vegetale, ampliando il raggio sulla sola Emilia.
La stella avrebbe potuto rappresentare un traguardo, certo, ma averlo raggiunto quest’anno è una stimolo senza paragoni verso il lavoro che stiamo facendo. Quando è arrivata la mail l’ho riletta due o tre volte, perché non ero sicuro, era solo un invito all’evento, quindi fino al momento in cui non senti il tuo nome e ti chiamano a salire sul palco non c’è niente di certo. Siamo andati a Modena in totale serenità, perché qualunque cosa fosse arrivata sarebbe stata comunque una grande soddisfazione, ma quando poi è arrivata, ed era proprio la rossa, la sensazione è stata indescrivibile.
Che cos’è cambiato in quest’ultimo anno?
La chiave di volta è stato quello che ormai è diventato un po’ il simbolo del nostro ristorante, cioè il menu Modena Safari e il suo approccio 100% Made in Modena; questo in concomitanza con l’altro menù, Emilia Vegetale che ne condivide la filosofia allargandosi ai confini dell’Emilia. Abbiamo preso una nuova direzione e questi due menu ci hanno permesso di esprimerci e di essere capiti ancora meglio dal territorio in cui siamo. Come anticipato prima, non sono solo i piatti e i ricordi della provincia, ma non c’è una sola materia prima, fornitore o ingrediente che non sia di Modena. Nel vegetale non c’è un solo vegetale che non sia emiliano.
Al momento vogliamo stare con i piedi per terra, abbiamo un motivo di responsabilità in più sia nei confronti della proprietà che ci ha sostenuto fino adesso, sia verso i clienti. Ecco perché adesso è il momento di consolidare, mese dopo mese: ora c’è il menu autunnale e per noi è fondamentale essere a contatto con la stagionalità.
Quali sono state le influenze più importanti e come si sono trasferite nel tuo stile?
Le proposte rappresentano tutte le mie esperienze passate, ma la mia identità si sta affermando sempre di più e spero si percepisca. Nella mia ultima esperienza in Belgio da Zilte ho imparato molto su leggerezza e freschezza nel piatto: è stato molto importante, ma essendo in Emilia, dove si fa una cucina più grassa e più dolce, è stata all’inizio la parte più difficile da mettere a terra per far capire meglio ai clienti quello che cercavamo di fare.
Di certo è stato importante presentare gli elementi territoriali in modo moderno e fuori dagli schemi…
Sicuramente anche l’impatto sul cliente che leggendo il menu riconosce alcune preparazioni o ingredienti ne rende più facile lettura, anche se dietro al piatto c’è una complessità. Modena Safari e la presenza di elementi rassicuranti hanno aiutato i clienti più restii e più “impauriti” - anche se pensare di far paura può sembrare un po’ strano (ride, n.d.r.). Poi ci troviamo a Fiorano, che non è una grande città e siamo dentro un hotel: da un lato aiuta, perché attingi dagli ospiti, dall’altro meno, perché in Italia gli esterni non vedono ancora normale mangiare in un ristorante dentro un albergo, come avviene normalmente all’estero.
Qual è, quindi, il vostro cliente tipo?
La nostra è una clientela abbastanza variegata, c’è un’incidenza abbastanza alta di giovani, tra i trenta e i quarant’anni, ma la cosa positiva è che si stanno approcciando anche più grandi, quella fascia un po’ più difficile per il tipo di cucina che facciamo.
Nella vostra proposta di cucina la sostenibilità è un punto cardine: in che termini la descriveresti?
Sostenibilità è innanzitutto ridurre al minimo, se non a zero, la parte di scarto della materia prima che utilizziamo. Per quel che concerne i piatti vegetali prendo come esempio il nostro assoluto di zucca, dove usiamo dalla polpa, ai semi, alla buccia, così da arrivare a consumare tutto. Oppure qualsiasi animale, soprattutto volatili che prendiamo interi: da petto e coscia, alle interiora, alla carcassa, con il minor impatto possibile sullo spreco.
Un altro elemento fondamentale è il fatto di lavorare con fornitori molto vicini a noi, limitando i viaggi dei mezzi, senza andare a prendere un prodotto all’estero o anche da fuori regione, per quanto buono sia. Ciò non solo ha un impatto ambientale positivo ma valorizza il concetto di 100% Made in Modena a 360 gradi, perchè davvero crediamo che l’eccellenza si nasconda potenzialmente dietro il prodotto, il lavoro, la passione e le tradizioni che abbiamo attorno, non serve forzarsi di cercarla altrove se si vive in una regione con 44 prodotti DOC e IGP e la cucina più amata del mondo. I francesi, nel mondo enologico, ne hanno fatto una religione.
Tu usi quasi sempre il plurale, un buon segno, anche per quel che concerne il concetto di sostenibilità sociale e del benessere delle persone. Quanto è importante il lavoro di squadra?
Sicuramente alla stella non ci sarei arrivato da solo: anche se a volte ci si scontra, ci si scorna, magari anche si litiga, alla fine lo si fa per un obiettivo comune, se fossimo sempre stati d’accordo non ci sarebbe stata una crescita. Su ogni piatto ci stiamo sopra tanto, finché non troviamo una quadra, e non dev’essere per forza su una mia idea: ci si confronta con tutti e si capisce se la direzione è giusta, non solo del singolo piatto, ma anche di ciò che andrà a rappresentare; il menù, le idee, sono frutto di confronti fatti con un team fatto da cucina, sala, chi si occupa della comunicazione e la direzione. Io sono un po’ come il frontman di un gruppo musicale: da solo non potrei fare musica.
Lo stesso vale per la sala, perché anche loro sono presenti quando proviamo i piatti; gli ultimi peraltro sono le persone che devono andare a raccontare il lavoro ai clienti e loro in primis devono essere consci e consapevoli di quello che facciamo ed essere bravi a rappresentarlo. Da ultimo ma per primo, nulla sarebbe stato possibile senza il nostro presidente Marcello Masi, che ha creduto in noi fino all’ultimo con una fiducia smisurata.