Da oltre vent’anni le Calandre esprimono l’inesprimibile attraverso gli strumenti illimitati della cucina pura: sono sensazioni che veicolano emozioni universali dagli spessori multipli, ogni anno più profonde e più centrate.
Fotografie di Lido Vannucchi
Il ristorante
Sembra impossibile, eppure Massimiliano Alajmo, più giovane cuoco tristellato di sempre ed ovunque, ha appena compiuto cinquant’anni. Il volto resta quello dell’eterno ragazzo e la cucina non è meno scalpitante, sebbene da qualche anno mostri una profondità inaspettata.
Sono ormai due decadi, del resto, che procede lungo gli stessi binari con coerenza rara. Perfino gli ingredienti sono rimasti in larga parte gli stessi e si ripresentano in un gioco di variazioni virtuosistiche, su leitmotiv come l’acqua e gli aromi.
Se le tecniche sono sempre più chirurgiche e consapevoli, fino alla soglia della molecolare, a livello concettuale sono sopraggiunte nuove strumentazioni, per esempio la neurogastronomia, che aiuta la trasmissione del messaggio. Nella sua ecumenica piacevolezza, infatti, la cucina delle Calandre si presta a diversi livelli di lettura: semplice cibo, ma anche molto altro, come lo chef fa intuire lanciando cadere qualche spunto qua e là, soprattutto negli ultimi anni.
Ma è solo un invito ad approfondire le proprie sensazioni, visto che i mezzi espressivi restano quelli di una cucina pura, che basta largamente a se stessa. Adesso per esempio è il momento del croccante, che significa cialde ipertecniche, ma anche fritture e altro ancora.
“È un motivo che sto studiando moltissimo, anche se in giro non trovo un granché. Quindi faccio da solo”, confida lo chef. Lo anticipano già gli appetizer, come la bolla di fecola e kuzu attorno alla purea di melanzana con sesamo, basilico e spezie, accompagnata da baccalà mantecato su cialda e uovo di quaglia con sardella crucolese e salsa ponzu. Poi l’olio, condito a sorpresa con riduzioni vegetali di stagione, foriere di cariche aromatiche che entrano in simbiosi, percezioni vegetali e colori accesi. Visivamente una protomurrina.
I piatti
L’entrée vegetale è una festa del palato, con la sua composizione intessuta dall’acqua. Quindi il sorbetto di pomodoro giallo e rosso, brani di barbabietola, zucchina e fagiolini, asparagi verdi crudi e bianchi in spuma, la mozzarellina ripiena di pomodoro giallo al Tabasco, la purea di fave e la scarpetta all’origano e cipolla cruda, in un miracoloso saliscendi di consistenze e di temperature.
Il primo momento elegiaco è Bob spoon, antipasto dedicato all’amico Bob Noto, scomparso qualche anno fa, composto di un cucchiaio bipartito, da una parte la mozzarellina con salsa moresca, dall’altra il purè con olio di fico, caviale e coriandolo. Una bilancia elusiva fra la Spagna, patria elettiva, e il classico, l’analiticità e il gioco, che introduce il tema della crisi con un cenno schivo a Spoon River.
Ma subito ritorna il croccante: è la moeca fritta nel sandwich di gallette profumate alle alghe, che raddoppia le testure, con insalatina alla salsa d’ostrica e gamberi rossi crudi a impastare; a fianco la scarpetta di guacamole profumato al pepe verde, mango, papaia e avocado, coriandolo ed erba cipollina.
Dove l’ironica scritta “fragile” è il manicotto di Benjamin, lasciato brevemente indietro nella certezza che si tornerà a prenderlo, una volta intuito il disegno complessivo del pasto.
Cambia registro il tortello asiatico ripieno di dashi dai riferimenti italiani, con crema di mandorle all’acqua, sgombro grigliato e laccato all’orientale.
Prima del capolavoro concettuale del pasto: Suono n’uovo. Alajmo è partito dall’idea di interpretare letteralmente la dizione “uova intere”, impiegata dai vecchi ricettari per la sfoglia. Quindi impasta anche una parte di guscio in polvere, per una sensazione a dir poco straniante: in bocca sembra di ascoltare masticando il rumore dei propri stessi organi, secondo una forma di introspezione sensoriale vagamente sinistra, sdrammatizzata dal condimento con burro al sedano rapa affumicato, polvere di erbe, salsa al Castelmagno leggera e in accompagnamento doppio brodo di carne affumicato, profumato all’incenso (!).
Altro capolavoro è Passi d’oro, nuova versione del risotto zafferano e liquirizia, ispirata a un’opera di Roberto Barni esposta all’esterno degli Uffizi, per ricordare l’attentato dei Georgofili. Un intenso chiaroscuro di note cupe e vitali, che comunica uno stato d’animo complesso attraverso i soli mezzi della cucina. In accompagnamento, geniale, il calice vuoto spruzzato di essenza aromatica di liquirizia e zafferano, per precipitare ulteriormente dentro il piatto agendo sulla leva olfattiva, direttamente connessa alle emozioni. E qui il sommelier Matteo Bernardi sfodera un Antico Gregori Contini, che sembra mimare le stesse dinamiche di riscatto della trama gustativa.
Il rombo fritto con salsa agrodolce e insalatina tipo millefoglie all’emulsione di uova di rombo racconta in modo didascalico la distinzione fra il crunchy, croccante che asciuga, come quello della pastella, e il crispy, che invece al morso sprigiona acqua, inondando il palato.
Prima del secondo, l’osso alla sambuca offre un contrasto di consistenze e identità fra la terra e il mare, rappresentato da ricci e caviale, che entrano imprevedibilmente in sintonia. Poi il piccione con kumquat in marmellata scarica, semicandito con paté delle interiora e wafer nero.
A svelare le trame del pasto, riunendo i manicotti disseminati qua e là, è infine il quaderno plastificato con riflessioni sparse sulla fragilità, che introduce il Gioccolato dedicato al tema. Lo studio organolettico dei 12 elementi è accanito. “Una delle cose più difficili dei giochi è creare un’armonia di verticalità. Invertendo l’ordine il risultato può cambiare molto; un elemento può essere virtuoso per l’altro dal punto di vista gustativo e di desiderio, per esempio se è asciutto e seguito da un altro che bagni la bocca. Tutto un gioco di profumi e cremosità volto a tenere l’asticella della percezione gustativa sempre molto pulita, molto pura”.
L’attacco riprende Bob spoon, con il geniale bicchiere bipartito fra sensazioni caldissime e freddissime, dolcezza e amaro; poi passando per varie sfumature di croccante, a questo punto interpretabile come correlativo oggettivo della fragilità emotiva, si arriva all’autocitazione del dessert Fede, il profumatissimo cremoso bianco nascosto sotto il supporto, che rimanda a spessori invisibili. Rappresenta il concetto stesso di fede: “La capacità di vedere un punto debole come punto di forza in modo quasi paradossale, come risultato di una ricerca interiore”.
Contatti
Le Calandre
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