Giunto alla sua terza generazione, il Charleston è stato attualizzato mantenendone lo spirito e rinnovandone i contenuti, attraverso una proposta che si muove dalla sontuosa per arrivare alla raffinata proposta serale. In cucina due giovani chef talentuosi: Gaetano Verde e Giuseppe Calvaruso.
La storia
Di Palermo ci si innamora, non c’è dubbio. Traffico compreso, giusto per citare la celeberrima battuta dell’avvocato in Johnny Stecchino, perché questa è una città che tra le sue mille anime e una ridda di contraddizioni, vive, assorbe energia e ne rilascia altrettanta. Ecco perché merita quella prima visita approfondita a cui inevitabilmente ne seguiranno altre e altre ancora. Palermo bellissima, con quel centro storico nobile e colorato, dove ha fatto ritorno il Charleston.
Un locale che a proposito di storia ha scritto a caratteri indelebili le prime importanti pagine del fine dining meridionale ante litteram, primo a raggiungere due stelle Michelin al sud della penisola e in Sicilia. È passato più di mezzo secolo da quel 21 ottobre del 1967, quando in via Magliocco Angelo Ingrao, Giuseppe e Nino Glorioso aprirono le porte del Charleston, destinato a ospitare tutti i personaggi illustri di passaggio a Palermo, da Maria Callas a Giuseppe Saragat, da Sergio Leone a Vittorio Gassman, ad Al Pacino.
Il luogo, dopo una lunga parentesi nell’antico stabilimento balneare di Mondello, è di nuovo lo stesso. Una sorta di ritorno a casa per Mariella Glorioso, che del ristorante si prende cura ormai dal 2008 con un filo conduttore basato su una concezione di ospitalità alta e sulla massima soddisfazione dell’ospite.
A Gianfranco Anello spetta il compito di attualizzare il Charleston alla sua terza generazione, mantenendone lo spirito e rinnovandone i contenuti, attraverso una proposta che si muove da una sontuosa colazione (merita un racconto a parte, tra miscele di caffè e pasticceria sublime) per arrivare alla raffinata proposta serale.
Nel mezzo un bistrot con le sue notevoli tentazioni golose, ancora più solido grazie all’arrivo di Giuseppe Calvaruso, resident Chef che ne curerà la cucina a fianco del giovanissimo executive Gaetano Verde.
Gli chef e la cucina
Per Calvaruso, palermitano del 1989 con esperienze di rilievo tra le quali quella da sous chef al Duomo di Ragusa Ibla, il Charleston è un importante punto di arrivo: “Il mio desiderio di diventare chef è nato qui, tra queste mura e oggi posso finalmente dare un contributo personale al nuovo progetto." I piatti saranno la reinterpretazione di classici come la Melanzana Charleston e gli Involtini di Pesce Spada, oltre a piatti originali creati da lui stesso come la minestra di pasta all'aragosta e la tagliatella di seppia.
Per il nuovo Charleston si può parlare di tanti ambienti differenti, di spazi accomunati da un’eleganza informale, progettati dal designer Sergio Colantuoni, tra carta da parati di inizio secolo scorso e stucchi utilizzati in chiave innovativa, studio dei colori e materiali naturali. Molto bello, ad esempio, il tavolo-scultura disegnato da Elena Pelosi, in cocciopesto, trattato e spazzolato, abbinato al divano a fagiolo.
Non c’è momento della giornata in cui il locale smetta di cambiar pelle e così, dalla colazione, al pranzo al bistrot, si passa all’ora del tè e ancora a un aperitivo come si deve, quando il piano terra diventa cocktail bar. Al piano di sopra non cambia lo spirito, ma ci si concentra su una cucina più sofisticata e concettuale. Attenzione però, perché Gaetano Verde, brillante ventinovenne, non è uno di quei cuochi che si perde in una ricerca fine a sé stessa, anzi, va in cerca della Sicilia in Sicilia, girando curioso tra fornitori e prodotti.
La sua storia professionale è piuttosto divertente, perché la colpa (o il merito) è di un professore di matematica al liceo classico, appassionato gourmet: “Era un grande goloso, girava tanto, aveva un blog e scriveva di ristoranti. Io portavo a scuola cose preparate da me che distribuivo ai compagni per la merenda, torte incluse. Fu lui a dirmi ‘perché non provi a cucinare in un ristorante, se ti piace?’”. Ecco che Gaetano inizia la sua carriera in un piccolo ristorante di Palermo, A’ Cuncuma, dove parte la sua formazione con Vincenzo Pinto, chef e patron.
Qualche altra esperienza locale e il ragazzo prende il volo: un anno con Francesco Sposito a Taverna Estia, al Ledbury di Londra e ancora quattro anni accanto a chef come Joël Robuchon e Mathieu Pacaud, come secondo a Le Pavillon de la Reine, nella parigina Place des Vosges. Ci racconta: “A Taverna Estia è stata la mia prima volta in uno stellato con una grande brigata e ruoli precisi. Ho pensato che fosse quello che faceva per me, la cura del dettaglio e lo studio su ogni singolo cliente: cos’ha mangiato, quante volte è tornato.
Da Robuchon invece è stata una palestra per i numeri, pazzeschi: centoventi persone a cena e ottanta a pranzo; lì hai a che fare con la preparazione di fondi e brodi e quando ogni giorno ti trovi a cuocere sessanta quaglie devi imparare per forza. Al Pavillon de La Reine ci sono arrivato su consiglio di una persona che considero un faro-guida, François Benot, storico pasticciere del gruppo Robuchon. Ho partecipato all’apertura del ristorante: la cucina era gestita da uno chef giovanissimo e supertalentuoso, con la consulenza della famiglia Pacaud, Mathieu e Bernard; qui ho vissuto soprattutto una vera e propria ‘malattia’ per la materia prima, un livello di attenzione incredibile”.
I numeri importanti ricorrono anche al Ritz, dove Verde è nuovamente alle prese con l’alta ristorazione d’albergo. Gaetano non si fa mancare un master in Management della ristorazione alla Mad Academy di Copenaghen, fondata da Renè Redzepi e diretta da Magnus Nilsson del Fäviken. Tornato in Italia, passa a Cortona da Organika e poi torna a casa. L’incontro con il Charleston è una fortunata casualità: “Sono tornato a Palermo per seguire un progetto andato in fumo, un amico mi ha contattato sapendo che qui cercavano, ho preparato una cena di prova e ci sono andato a stile mio, senza sapere nulla, non sapevo cosa aspettarmi.”
Ed è andata bene, anche se non è stato immediato passare a una cucina differente rispetto a quella che il cliente tipo del Charleston-istituzione si aspettava. Di certo Gaetano Verde è un giovane la cui intelligenza gastronomica ha consentito una transizione felice verso una cucina che sa armonizzare istinto, tecnica ed esperienza. La squadra, del resto, è solida: quindici persone in brigata, Claudio Terranova, il sous chef e compagno di classe del liceo anche lui folgorato dall’alta cucina e una sala di prestigio, con la bravissima Michela Vitale, restaurant manager e head-sommelier che governa una notevole selezione di etichette, un passato da Gagini e al Duomo a Ragusa lbla.
La proposta fine dining
“La mia cucina è impostata su un lavoro che definirei molto primordiale, di base c’è la ricerca della materia prima che cerchiamo di lavorare al meglio. Non c’è un processo in cui si decide prima il piatto e poi i suoi elementi, al contrario ragioniamo sulla base di cosa riusciamo a trovare, di che pesce arriva, ad esempio: quella è la base, poi sviluppiamo l’idea attorno a essa. Posto il fatto che la nostra accoglienza è tutta mirata al far star bene l’ospite, cerchiamo comunque di non cadere nel solito discorso della cucina della nonna: lei, se dovesse aprire il mio frigorifero, rimarrebbe sconcertata (ride, n.d.r.).” Decisamente originale, quindi, colto e divertente, Gaetano Verde cucina libero da dogmi e allo stesso tempo con quel rigore di base appreso dalla grande scuola in Francia.
C’è tanta Sicilia, nei suoi piatti, perché lo chef conosce questa terra e si muove alla ricerca del meglio che essa esprime in funzione del periodo dell’anno. Allo stesso tempo nulla gli vieta di spaziare ovunque, se e quando serve. Tutto questo si traduce in tre menu degustazione, cinque e sette portate e mano libera. Il nostro, sinfonia della memoria, si è rivelato un assaggio ampio, partito con spumeggiante freschezza fin dagli amuse bouche, dall’air-cracker con mantecato di ricciola, marmellata di limoni e vaniglia e ricciola maturata. Ancora, il goloso raviolo fritto ripieno di ricotta, gambo di bieta e menta e limone, con gambero crudo e polvere di pomodoro. Si inizia il percorso con il cavolfiore croccante cotto nel burro, salsa di mandorla affumicata e caviale, di raffinata eleganza nel suo gioco tra amaro e sapido.
Molto buoni i friarielli passati al barbecue serviti con i calamaretti anch’essi al barbecue e salsa al pane. Notevoli i raffinati gnocchetti di bieta serviti con nervetti di maiale ostriche norvegesi e aceto di bieta. Di grande eleganza i ravioli farciti di anatra saltati nello jus del volatile e serviti con aragosta e nasturzio che contribuisce alla parte fresca e piccante al piatto. Fini note vegetali e inusuali, riuscite consistenze, arrivano dalla lattuga grigliata servita con salsa Marsala e seppie crude.
A pulire la bocca un intermezzo, con l’originale sorbetto di susine con alici maturate in olio e olio di peperoncino. Grande cottura per ‘piccione, lenticchie e vongole’ la cui carne è affumicata con foglie di ulivo e rosmarino; servito con il suo fondo e lenticchie nere cotte insieme alle vongole; a chiudere un piatto di goduriosa complessità la salsa di bottarga. Arancia, limone e bergamotto è il primo, rinfrescante dessert. Si termina una cena esemplare grazie al gelato al pane, un dolce in cui viene recuperato il pane vecchio, testimonianza dell’attenta cura per le lievitazioni lente, servito con arancia candita e alghe croccanti col sesamo a dare un tocco di sapidità. Una meta destinata a diventare grande.
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Charleston
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