L'indole di un maestro che non è mai stato al gioco della prevedibilità e il savoir faire di un servizio volutamente sospeso sulla fune dell'empatia. In Parallels Anthony Genovese crea un "mini locale a statuto speciale" che infrange le barriere ospite-chef.
Fotografie di Aromi Group
A teatro la chiamano "quarta parete": un vetro invisibile che divide la realtà della platea dalla finzione del palco, quasi fossero due mondi paralleli. Non esiste spettacolo senza quel separè immaginario dove inizia il "sogno ad occhi aperti" della rappresentazione. Ma quando il personaggio esce dal ruolo e parla al pubblico senza i filtri della trama, lì ogni barriera cade: freestyle o colpo di scena, per un attimo l'attore azzera le distanze con lo spettatore. Ora, pensate se la stessa cosa accadesse al ristorante.
Fa questo effetto Parallels, il "secret dining" del Pagliaccio di Anthony Genovese in cui la quarta parete tra cuoco e ospite evapora magicamente dal prologo all'epilogo. Al centro, una sala in scala ridotta che guarda dritta in faccia la cucina satura di adrenalina a pochi metri di distanza. Quattordici atti tête a tête per un audience massimo di sei persone sedute al medesimo (e unico) tavolo, una scaletta fissa consegnata all'arrivo, luci modulate dal backstage e ospitalità volutamente sospesa sulla fune dell'empatia (perché, si sa, l'improvvisazione è pur sempre parte dello show).
A uno sguardo distratto potrebbe sembrare l'ennesimo trastullo per clienti annoiati dalla pompa magna gourmet. Nei fatti, invece, è un mini-locale "a statuto speciale" che infrange la bolla della degustazione tout court, rendendola a tratti più sciolta e cangiante, a tratti più intima, sul tracciato spigliato dell'autobiografia. Perché oltre la sfilza di signature dishes, percorsi al buio o finger di circostanza, spesso la genesi di un piatto scuote i sensi nel vivo. E crea connessioni profonde che l'istinto non riesce a prevedere.
L'esperienza Parallels
No, qui il menu non ha l'aspetto del tipico copione prestampato; non scivoletete nella noia di un'amuse bouche barocca o nel ripescaggio di relitti autocelebrativi con 10 anni d'età. L'unicità di Parallels sta tutta nell'interazione: se Matteo Zappile è ormai noto fra i maestri di sala all-round (basti pensare alla doppietta Michelin -Gambero Rosso per il miglior servizio d'Italia 2022), va detto che di rado accade di trovare selezioni così focalizzate sulla Francia, dove la ricerca di aziende premium -283 Maison solo di Champagne- incontra a metà strada l'abbinamento "emozionale".
Significa che il team vi leggerà a raggi x prima ancora di aver impugnato la forchetta: sul campo il general manager del Pagliaccio, insieme all'head sommelier Luca Belleggia, sonda man mano il mood del tavolo con un drink espresso o un sidro evoluto, sterzando a sorpresa su birre e assaggi alla cieca, fermi restando i nomi di spicco estrapolati da una cantina di 1850 etichette.
Di rimando, Anthony Genovese alza il tiro con un numero di corse solo apparentemente temerarie. La maratona incede costante, dal riscaldamento sveglia-papille della Cialdina all'ananas, dahl di lenticchie e chutney di mango alla scarica di endorfine in dirittura d'arrivo (con lo sprint di una gaufre calda da annegare nel gelato ricotta e visciole). Gli estremi li unisce un prodotto plurale, sbalzato con enfasi dall'ecosistema al risto-sistema: può essere il fungo scovato al mattino nei boschi rugiadosi in 10 varietà opposte e complementari; la mela che finisce tanto in una sfoglia salata, quanto nel ripieno suadente del dessert e persino nel calice "allo stato fluido"; può essere, infine, la generosa lunghezza dei brodi, contrafforti di un assaggio che ha sempre la sua spalla liquida.
Ci si ambienta? Dipende da voi. Per i curiosi naturali, il format collima con l'indole di uno chef che non è mai stato al gioco della prevedibilità. D'altra parte, il Genovese-pensiero trova in Parallels nuovi appigli: i sides di contorno diventano piccole portate compiute; asprezza e amarezza rifilano a mo' di bisturi ogni rotondità estemporanea; l'ortaggio ha spesso valore assoluto, sfidando a duello l'opulenza della proteina. "Nulla si crea e nulla si distrugge", direbbe qualcuno- "ma tutto si trasforma" in qualcosa di diverso dalla pura e semplice percezione immediata.
I piatti
Nella saletta appartata lo staff è il Mercurio che azzera le distanze con la cucina, filtrando a maglie strette la complessità del percorso per tradurlo in una manciata di frasi incisive. Il messaggio passa forte e chiaro sin dal debutto, con un restyling della "gelatina di frutta" che vede uniti rapa rossa e semi misti, avvolti dalla foglia ostrica (pianta costiera a tutto iodio) per uno schizzo salmastro senza ombra di mollusco. Il cadeaux di benvenuto giunge a destinazione insieme a un brodo invernale di funghi che spinge l'umami sulle guance: "Champignon, porcini, chiodini, spugnole; ogni volta qui dentro finisce un pezzo di foresta diverso". Intro pirotecnica in un minuto d'orologio.
"Movimenti, flussi e sapori" è lo zabaione che mancava all'appello dei ricordi: salato, non dolce, a rompere il muro del gusto zuccherino. In cima un bianco d'uovo montato, cotto e profumato al curry col rinforzo pimpante del cappero; sotto il cavolfiore nature, crudo e tenace, per attivare la mandibola; sopra, il caviale di storione iraniano Osetra che chiama il mare a rapporto in pochi millimetri d'assaggio. Un ping-pong continuo, dalla parte speziata a quella sulfurea, fino all'onda sferzante delle uova di pesce.
Al terzo round Genovese dimostra quanto l'attesa del dessert sia essa stessa il dessert: "Come una tarte tatin" riscrive da zero la ricetta arcinota, ribaltando nel concetto la torta rovesciata. La sfoglia? Super green, di sedano e patate, guarnita poi con mele cotte in forno e un'altra tranche di funghi -stavolta a lamelle- più spolverata tattica di tè matcha. In bocca ciascun elemento è una variabile indipendente che emerge nitida, seppur in combo col resto. E alla fine ti ritrovi ad esplorare un tratto di biodiversità verticale, dai pomi dell'albero agli inquilini del sottobosco. La parte interattiva sta nella scelta delle creme di accompagnamento, entrambe a lato in doppia opzione: crème fraiche o limoni arrosto per un'addizione smoky.
All'estremo opposto della catena alimentare, il piccione si eleva in una tripla acrobazia. Dapprima affumicato, con l'abalone al vapore che ne adorna le scaloppe; quindi, il fegato alla mugnaia, reso graffiante dalle erbe amare per lavar via l'alone di ferrosità residua. Da ultima, la coscia trattata a bassa temperatura e poi alla griglia, nonché stretta a nodo fermo da una foglia di vite, sigillando i tessuti polposi. Ma sono i primi a mandare in porta il goal decisivo. Immaginate una grigliata mista e una pasta al pesce riunite nel medesimo piatto: se a scriverlo pare surreale, in Parallels accade davvero.
Alla base un variegato animale- dalla vacca al vitello, dall'agnello alle salsicce di suino- che la brigata arrostisce su fiamma diretta, realizzando in seguito un brodo capace di estrarne i sentori profondi (nel nostro caso, col grasso di prosciutto in ouverture). Ebbene, sì: proprio quel brodo va a lambire le Trenette con impasto ai ricci di mare, mantecate in salsa d'anemone e guarnite con polpa di riccio e salicornia. A chiudere la parentesi acquatica, un velo etereo di calamaro a crudo. L'impatto è lieve e insieme ficcante: la succulenza degli odori nella "zuppa di carne"; il sapido del riccio dal guizzo fulmineo; il rebound di temperature per pungolare il palato mentre capta la doppia proteina. Impulsi geniali passati al setaccio da un metodo scientifico. Stop and go, fuori dal tempo e dentro i vicoli cittadini: in "Roma, interludio" lo chef aggiorna il vecchio file della minestra broccoli e arzilla, con la mantecatura in diretta del Vialone Nano precedentemente cotto nel brodo di pesce.
Ne deriva un risotto d'archivio ripulito nel dettaglio, dove il caramello alle erbe amare dà contrasto e la scorza di limone illumina il ciak capitolino. Di nuovo, la verdura si scopre sovrana con le Sfoglie di sedano, carote e cipolla, in cui la pasta -tirata a velo fine, aromatizzata dalla polvere dei tre ingredienti e farcita con gli stessi in forma cremosa- racchiude ton sur ton i fondamentali della gastronomia. Poche gocce di olio di aglio nero fanno da moltiplicatore a un'operazione ambiziosa: estrarre la cucina "domestica" dal suo nido comfort per esporla alle luci della ribalta. Genovese ci riesce trasformando due elementi basic che più basic non si può -brodo e soffritto- nel "mangia e bevi" che non ti aspetti, complice un dashi vegetale dal carattere audace.
La stessa audacia del Rombo in due passaggi (al forno e poi rosolato in padella con burro e aromi), pronto a fissarsi nella memoria per l'intensità del ragù di lumachine di mare e pecorino grattugiato che ne tinge le carni tenere: l'Urbe in salsa Mediterranea.
Troppo facile puntare le fiches su una classica beurre blanc; quella versata sopra ingloba cubetti di pera precedentemente marinati in acqua di Sardegna ("sì, viene proprio dall'isola"), che rincorrono i sentori un po' salini e un po' morbidi di fondo. A parte, una fetta di finocchio profumata sottovuoto all'aglio; infine, lime in osmosi e vongole ripassate con burro. Quando il side è praticamente un piatto a sé, così intenso da rilanciare la salivazione.
Momento agio con la Pernice in abiti di lusso: l'uso totale del volatile si biforca tra la coscia, guarnita di salsa Perigord, e l'interno di una galette de rois, ripiena di foie gras e tartufo nero intero. La goduria scomposta in un boost di fragranze a lento rilascio.
Mai perdere l'ironia per strada, Genovese docet. Si può essere metodici e arguti senza soluzione di continuità, come la linea disegnata sul piatto da dessert per abbozzare la smorfia del Pagliaccio. Il dolce è un Papillon eretto sopra un piedistallo di pasta sablé leggermente salata. Gli dà corpo una panna densa con vaniglia tahiti fumé, rinvigorita dagli inserti di mela. E in quella smorfia sorniona c'è tutto il gusto di un "to be continued".
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