L’alchimia rara di una locanda che è da sempre con i piedi per terra e la testa fra le nuvole: nel Borgo di Rivalta, un giovane chef con trascorsi di rilievo accoglie il parterre internazionale fra guizzi d’inventiva e rispetto della materia pura.
La storia
A ciascuno la sua famiglia. Pietro Carlo Pezzati – trilingue di bella prestanza, con un CV lungo un braccio a neppure trenta anni al suo attivo – se ne è aggiudicata una d’eccezione. Che lo ha accolto a braccia aperte. Benvenuto alla Locanda del Falco di Sabrina e Pucci Piazza. E ora pure anche un po’ sua, visto che vi troneggia sui fornelli.
Perla rara lui, perle rare loro: due sorelle affiatate come poche, alla prua del battello famigliare lanciato dal 1975 contro mare e monti, tuttora poco localizzato dai radar dei più. Meglio così, roba da nicchia, da passaparola resta. Per i curiosi sensibili ad un vero lavoro sul territorio e le sue tradizioni.
Dove Pietro, rientrato a casa dopo due lustri passati, dall’Australia a Parigi, cercandosi girovagando per il mondo, apporta dal novembre 2021 la sua umile pietra al ricambio generazionale d’una Locanda che essenzialmente Officina di sogni, idee e attività é.
La carta segue passo passo il ritmo delle stagioni, batte l’espressione dell’istante. La farandola dei piatti, con tutti i prodotti della Val di Trebbia e oltre, interroga il patrimonio popolare del piacentino, talvolta alla lettera – gli anolini di stracotto in brodo, i divini pisarei – ma sempre col guizzo dell’inventiva, travagliata spensieratezza un filino trasgressiva.
C’è sempre una prima volta. Quando si sbarca per caso, grazie alla fortunata sorte (sia lodata per inciso Isa Mazzocchi che dalla sua Palta ci spinse a prendere d’assalto una sera d’estate il borgo di Rivalta) in un posto del quale, poveri ignoranti, si sa poco o niente. E immediatamente si è colpiti al cuore dall’energia, l’atmosfera fuori dal tempo col pulsare del presente, i piatti pensati per essere dapprima mangiati e solo poi ragionati. Con una carica, una dovizia di spunti, d’inflessioni e digressioni mai deroganti dalla strada maestra: quella del sapore, dell’equilibrio, della freschezza.
Allora, come con i libri, i dischi, i film consigliati o prestati, da subito l’anelito fu di tornarci in compagnia di (o di spedirci al volo) gente al di sopra d’ogni sospetto. La cuoca cileno-americana Victoria Blamey. La giornalista giapponese Melinda Joe. Lo scrittore Nicholas Gill, la globe-trotteuse hongkonghese Vanessa Yeung. O il CEO della casa discografica tedesca City Slang, Christof Ellinghaus. Per ben capire, tutti insieme o separatamente, l’alchimia rara d’una locanda della quale Pietro Carlo Pezzati è l’anima propulsiva. Ma che poco senso avrebbe senza la complicità d’una squadra che dire affiatata è poco.
Chiamatela “Factory” alla Andy Warhol o “Famiglia” come usa Massimo Bottura quando parla della Francescana. Noi diremmo semmai “Comune”. Quella delle microsocietà alternative d’un tempo dove l’estro e le capacità, i bisogni e desideri di ciascuno erano messi a disposizione dell’altro. La forza nell’unione, la creatività in comune. Tutto è esposto, alla faccia del rimosso.
La cosa va ben evidentemente al di là della bottega, più vera che natura, che scande il benvenuto sulla sinistra della porta d’entrata col suo florilegio d’insaccati, latticini, cavoli, zucche, legumi secchi e freschi, vini, olii, conserve e condimenti. E anche, adiacenti al bancone, tanti scaffali stracolmi di misi, pickles e fermentazioni a far da corollario ad una antologia di quel che di meglio produce l’agricoltura locale della giovane generazione. Ci vorrebbero dei titoli coda lunghi quanto quelli dei film di Christopher Nolan per citare in extenso la massa dei fiancheggiatori in prima linea del sourcing ragionato.
La parola alla maîtresse de maison, Sabrina Piazza: “Tanto è cambiata la Locanda del Falco da quando, quasi mezzo secolo fa, i miei genitori, macellai piacentini di alta qualità, presi alla sprovvista dal boom dei supermercati e dalla fulminante diserzione dei loro clienti, decisero di riconvertirsi in ristoratori. Da allora abbiamo sempre servito una cucina di tradizione al passo con i tempi, per niente incollata al retrovisore.
Quando il nostro precedente chef, Tomohide Nakayama, per un decennio in cucina, è rientrato in Giappone, ho avuto la fortuna d’incontrare Pietro una sera a cena da noi con dei suoi coetanei. Scoprii che era nativo di Boggio, qui vicino e cuoco pure lui, in Francia, dapprima al Septime di Bertrand Grébaut poi nella sua auberge nella campagna del Perche. Gli ho fatto decisamente la corte, ma non è tempo di ritrovare la tua regione natale? Lui ha all’inizio titubava, per che da qui era quasi scappato ancora adolescente per cercarsi lontano da casa. Poi, per fortuna ci ha ripensato. Nel novembre del ‘21 quando ha infine posato le valige al Falco un nuovo capitolo si è aperto per tutti noi.”
I piatti
Altro che giacobina rivoluzione, la rottura è semmai nella continuità vitale d’una Locanda da sempre con i piedi per terra ma, per fortuna, la testa tra le nuvole. La forza del sogno mai stipata nel cassetto, l’ego ingombrante invece sì. L’immaginario di Pietro Carlo Pezzati tende l’estro al collettivo, divaga senza frontiere tra il vicino e il lontano, i retaggi dei viaggi e le intuizioni del prossimo presente, il tanto vegetale e il bemolle applicato all’animale.
In primavera la Torta di asparagi piacentini – verdi e viola – dialoga con quelli fermentati bianchi di Bassano insieme a del caprino fresco, delle raspadure di Lodi e delle timose spezie Zaatar d’ispirazione prettamente libanese. I Tacos qui al Falco sono citadine del mondo, altrettanto italiani che messicani, con burrata, pensati con gamberi liguri ma anche aglio nero e purea di alghe kombu per un boost dolcemente iodato. Il Giappone, al pari della Cina d’un tempo, non è mai lontano. Nel Chawanmushi ovviamente, flan con bisque, uova al marsala e erbe aromatiche, olio ai gamberi, limone e umeboshi Jap di prugne.
Ma esplode paradossalmente nell’italianità a spada tratta di almeno due capolavori che si arraffano tutti gli allori del 2023. Questione di sfumature, di dialoghi sottocutanei: tra l’alliaria e l’aglio orsino con capperi essiccati nel risotto al luppolo selvatico e fragole sotto miele, erbaceo e vivace come un Gyokuro Kansai invaghito dal the Matcha.
E ancora più, se la cosa fosse davvero possibile, in un manrovescio di Umami, botta di ottimismo, di vitalità in un guanto di velluto da risvegliare anche i morti, non a caso intitolato “Umami tu Mami”. Un piatto lunare, d’una semplicità stellare, con poco da aggiungere e ancora meno da togliere, filologicamente vicino ai mitici “Spaghettoni al lievito di birra” dei fratelli Camanini. Ecco, dunque, l’interpretazione di Pietro Carlo Pezzati della Felicetti Monograno: degli Spaghetti Kamut® nella loro più quintessenziale fragranza ma accordati con l’evergreen in soverchiante freschezza dell’erba cipollina e delle uova di trota. Con la sua miracolosa salsa di grano fermentato, acidità e dolcezza all’unisono trasformanti la bucolica salinità in un avvolgente umami dalle lunghissime, infinite rifrazioni umorali. Un capolavoro di iodo infinitamente soffuso si diceva che potrebbe degnamente rappresentare più di tanti l’Italia alle prossime Olimpiadi della cucina esperanto.
Perché dal Falco una cosa è sicura: qui si tiene a parlare una lingua dotta e dialettale, raffinata perché all’ascolto anche delle tante sottoculture, e sempre, sempre comprensibile dai più. Non riservata ad una sola casta, una sola categoria sociale. Del palato omologato non v’è traccia, dei tics comuni alla Tik-Tok Generation neppure l’ombra. L’eredità del fine dining si rigenera al contrario in un fun dining per nulla ecumenico.
La comunità del Falco sa dove andare a parare: verso una cucina personale – altri direbbero d’autore – seppur sprovvista di rigidità identitarie. Con la vocazione all’autodeterminazione e la battaglia della libera scelta. Siamo in un avamposto, con i tempi che corrono sempre più raro, dove la carta primeggia ancora sulla retata a mano armata del menu degustazione.
“La carta da noi è la norma. Se poi un cliente non ha voglia di spremersi le meningi e ci chiede un menu, Pietro Carlo ovviamente glielo fa. Ma su misura” precisa Sabrina Piazza, interpellando cosi’ il giovane chef -che prontamente intercede: “Abbiamo una clientela che da sempre ci segue fedele. E tanti altri, veramente di tutte le generazioni, compresi numerosi giovani, che il passaparola spinge da noi per offrirsi una bella esperienza. Senza strafare, neanche ci pensiamo di abolire la carta, ci mancherebbe mai, mi piacerebbe però che, un poco alla volta, con la fiducia oramai istaurata gli ospiti ci chiedessero sempre più delle Carte Bianche, a seconda delle voglie, della fame. E del tempo loro che accettano di mettere a nostra disposizione.”
Per gli Omakase alla piacentina solo il futuro ci dirà. Pietro Carlo Pezzati ha tutta la vita davanti a sé. Da soli due anni e tre mesi alle redini del Falco traccia al quotidiano, senza errori di percorso, il perimetro del suo habitat espressivo. Nell’ottobre scorso, invitato per la prima volta ad un congresso culinario, sul podium dublinese di Food on the Edge (https://foodontheedge.ie/speaker/pietro-carlo-pezzati/) sorprese, e non poco, il pubblico prendendo a contropiede il modus operandi. Là dove tanti si dilettarono a schermarsi dietro filmini autopromozionali, ricettari spiegati live e buonismo discorsivo di ottima lena, Pietro Carlo Pezzati presentò invece “Landing”, un video realizzato a quattro mani con l’artista Michele Sambin.
Delle immagini materiche – cielo, nuvole, acqua, sabbia – e delle frasi, delle enunciazioni, effimere e fugaci, tracciate con un ramoscello, sul bagnasciuga d’una spiaggia lambita dalle onde. Come le parole, anche lo scritto vola. La risacca delle onde inonda tutto, porta via istantaneamente, cancella le geroglifiche tracce mentre fuori campo un sax stridente s’eleva verso il cielo. Le tracce scompaiono sotto i nostri occhi. Parole, aforismi, il nome stesso dello chef durano solo qualche secondo. Lavati, levati da sè, tornano al largo, portati via dal riflusso dell’acqua. Che col suo movimento cancella qualsiasi mnemonica traccia. Mai azione poetica fu più bella, almeno sin dai tempi in cui e Franco IV e Franco I tracciavano cantando “Ho scritto t’amo sulla sabbia”. La memoria sfila via, abbagliata dalla luce scemante. Ma i fatti e le intenzioni restano.
Contatti
Locanda del Falco
Castello di Rivalta 4- 29010 Gazzola (PC)
Chiuso: lunedì e martedì
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