Con la proposta de L’Arcangelo, Dandini sintetizza l’esperienza di cinque generazioni di ristoratori e la storia della tradizione culinaria romana. Riuscendo ad essere al tempo stesso oste, chef e imprenditore di successo.
La storia
Difficile spendere parole che non suonino ripetitive per un’istituzione come Arcangelo Dandini. Personaggio eclettico e istrionico, grande appassionato delle tradizioni culinarie romane, nasce nel 1962 a Rocca Priora, un piccolo paesino dei Castelli Romani. Tradizione nel senso più ampio e complesso del termine, sinonimo di cultura, curiosità e capacità di sintesi delle memorie trasmesse da una generazione all’altra per andare alla radice dell’idea originale per saperla perpetuare correttamente o per esprimerla a modo proprio.
“Sono favorevole all’interpretazione, ma per cambiare le regole, o attualizzarle, devi conoscerle bene”, afferma con convinzione Dandini, e non sono molti quelli che possono dire di conoscerle come lui. Respira sin da piccolo gli odori e gli umori della cucina nello storico ristorante di famiglia: “ Dormivamo al piano di sopra, ma la maggior parte del tempo la trascorrevamo sotto, dove oltre alla cucina di 400 mq, impensabile oggi, c’era un’anticucina di 70 mq dotata di un bel camino, la televisione e il divano”, racconta.
Cuoco per investitura diretta, ma oste per vocazione: “Spesso si confonde la cucina con la ristorazione, io mi sono sempre sentito più un oste che un cuoco, perché l’accoglienza è tutto, se non stai bene in un locale non riesci ad apprezzare neanche il migliore dei cuochi”, precisa. Autore di libri come “Memoria a Mozzichi”, in cui ripercorre le origini della cucina romana facendo un excursus storico che parte dalle ricette della Roma imperiale per arrivare alla più nota cucina testaccina, passando per la cucina giudaica e per i banchetti dei papi rinascimentali, o come “Animelle”, un viaggio nei ricordi alla scoperta della propria cucina, con esplicito riferimento ad una parte del quinto quarto tra le più note e divisive, che corrisponde al timo, una ghiandola collocata nel collo dei giovani esemplari di ovini e bovini.
Alle spalle ha esperienze importanti e formative come quella da Aimo Moroni a Milano, tra il 1987 e il 1990, poi al Melograno di Ischia e a Viareggio, fino a quella più significativa nel 1997 alla direzione del Simposio, un wine bar ante litteram annesso all’Enoteca Costantini di piazza Cavour, divenuto leggenda negli anni poiché crocevia dei più grandi personaggi del mondo dell’ enogastronomia e non solo, da Heinz Beck a Benigni, da Ligabue a Vizzari, passando per i grandi produttori italiani e francesi che volevano far conoscere i loro vini, divenuti ormai introvabili oggetti da collezione. Se l’esperienza al Simposio permette a Dandini di cucirsi addosso l’etichetta di oste, grazie anche al supporto di un giovanissimo e promettente Gabriele Bonci in cucina, l’apertura del ristorante L’Arcangelo nel giugno del 2003 gli permette di farsi apprezzare in tutte le sue abilità: oste, cuoco ed imprenditore.
A quel progetto ne seguono altri, su tutti Supplizio, una friggitoria rustica e accogliente come quelle di una volta, con due sedi, una in pieno centro e l’altra all’interno del Mercato Centrale di Roma “che dopo una battuta di arresto sta ricominciando a funzionare, basti pensare che a ottobre 2023 abbiamo registrato un incremento del 30% rispetto al 2019, l’anno in cui si è andati meglio”, spiega Dandini.
L’idea nasce per celebrare e dare maggiore rilevanza al supplì, street food romano per eccellenza, e a tutti quei fritti “da passeggio” che fanno parte della cultura popolare, come il croccante di baccalà o le crocchette di patate affumicate, proposte in chiave moderna, meno popolare in termini di prezzo, ma incentrata sull’assoluta qualità degli ingredienti utilizzati, anche acquistabili nel locale.
A seguire Chorus, nella seconda metà del 2021, spazio imponente, poliedrico e multifunzionale a due passi dalla Basilica di San Pietro, dove lo chef cura la gestione della sala e l’offerta gastronomica di un locale già avviato e funzionante, grazie ad un eccezionale cocktail bar che si avvale dell’esperienza di un mostro sacro della mixology come Massimo D’Addezio. È dello stesso periodo anche l’apertura del ristorante Garum a Londra, che punta su Arcangelo Dandini per portare la cucina italiana e romana a Londra, con l’idea di creare una trattoria moderna “a metà strada tra L’arcangelo e Supplizio”, che proponga una cucina di prodotto incentrata sulle ricette tipiche della Capitale, dalla carbonara alla gricia, dalle polpette alla trippa, senza dimenticare supplì e street food.
Il ristorante
L’Arcangelo sorge a pochi passi da piazza Cavour, all’interno di un locale storico, tra i primi a cui fu concessa la licenza di somministrazione dopo la prima guerra mondiale, e si presenta come una classica trattoria romana, vivace e accogliente, forse per la mise en place con tovaglia bianca d’ordinanza e sedie in legno, per i tavoli molto ravvicinati, per il bancone in legno e marmo di fronte all’ingresso su cui poter mangiare, con tanto di Berkel da un lato e di bilancia vintage dall’altro, ma c’è di più: “Il nome del ristorante deriva dai due puttini raffigurati su una delle pareti” – racconta lo chef – “non avevamo ancora trovato il nome per il locale e dovevamo aprire a breve, così un mio amico propose di chiamarlo L’Arcangelo, ispirandosi proprio a quell’immagine. È stata lasciata in eredità dal proprietario delle mura, una specie di portafortuna, come anche la foto del 1924 che raffigura dei carri da vino in piazza della Signoria a Firenze, in cui si inneggiava al consumo di alcol”.
Quel quid in più cui si accennava precedentemente è dunque riconducibile ad un mix di cultura, ricordi e aneddoti storici: in primis quelli della famiglia Dandini, con le tante foto appese alle pareti che ne ripercorrono le tappe principali, come il ristorante di Rocca Priora: “Nel 1967/1968 avevamo 1600 galline circa e le donne venivano dai dintorni per fare la pasta fresca: lasagne, cannelloni, ravioli ricotta e spinaci, fettuccine al ragù, non c’era traccia dei piatti tipici romani perché le persone erano abituate a mangiarli a casa” - racconta lo chef – “la domenica facevamo circa 1500 coperti, mi ricordo che mio padre per accontentare tutti chiedeva di portarsi le sedie da casa. Quello che oggi è definito “chef table” lo hanno inventato i miei in quegli anni senza saperlo, perché spesso per mancanza di altri spazi facevano accomodare le persone sul nostro tavolo, con la cucina a vista”.
E ancora gli specchi liberty, il triciclo sopra la porta di entrata o le tante macchinine sparse sui tavoli, tracce indelebili di un’infanzia semplice, probabilmente normale, ma in grado di segnare nel profondo la sensibilità e il carattere di uno chef dall’apparenza burbera, ma capace di coinvolgere gli ospiti come solo le persone umili e di grande spessore sanno fare. La sua cucina rispecchia in modo preciso e dettagliato il suo essere: i piatti in menu sono quelli della tradizione romana, tradotti però in chiave colta e attuale: “Non cucinerei come cucinavano i miei, i piatti vanno rivisti e alleggeriti, per farlo è utile dotarsi di attrezzatura all’avanguardia, ma con il fuoco, un coltello e una padella puoi fare tutto”, spiega.
Quindi una modernizzazione che non si basa sul vezzo o cavalca la moda del momento, ma affonda le radici nella storia di quella ricette, nelle sue origini, nel perché si preparavano così o non in un altro modo. Così ogni piatto racconta una storia, un aneddoto, oppure ripropone un classico di famiglia nato per caso o necessità e tramandato per cinque generazioni: “Molto spesso le ricette nascono così, tutto il nostro lavoro è basato sull’esigenza del momento, per esempio quella di ridurre gli sprechi, o di recuperare degli scarti”. Tutto questo si traduce in una sintesi perfetta di passato e presente, in cui gioca un ruolo di primo piano la ricerca e la selezione degli ingredienti da utilizzare, valorizzati al meglio perché funzionali allo scopo, mai superflui o lavorati più del necessario.
I piatti
Forse il piatto che più esemplifica quanto sopra è il “Viaggio a Rocca Priora”, da vent’anni un manifesto della cucina di Dandini, il racconto di un percorso identitario articolato e preciso: uovo pochè speziato, erbe spontanee, polline e succo di visciola. L’uovo simboleggia la nascita, le erbe sono iconiche del territorio: “Le raccoglie da sempre la signora Regina, una donna del paese esperta in materia di cui mi fido ciecamente, io neanche con un corso di biologia saprei riconoscerle tutte”, confessa lo chef; il polline celebra il primo lavoro da apicoltore di un Arcangelo quattordicenne e le visciole ricordano l’albero posto fuori casa in campagna, da sempre fonte di frutti prelibati.
Si continua con la crocchetta di patate affumicate e il baccalà croccante dalla panatura eccezionale, accompagnato da maionese ai capperi, omaggio a quello street food tanto caro al nostro oste e che ha portato all’idea di Supplizio, come l’arancino romano, con funghi porcini secchi, rigaglie di pollo e finocchio “perché mia madre lo faceva così”. Tra i primi, i “Ravioli di cipollata di Alife, il mio garum, burro e parmigiano”, piatto saporito e confortevole, omaggio a Bartolomeo Scappi, cuoco privato di almeno due papi, che nel suo trattato “Opera”, uno dei più completi libri di gastronomia mai scritti risalente alla seconda metà del 1500, racconta in modo approfondito anche le ricette meno note della cucina papale e principesca, tra cui la cipollata. In questo caso lo chef per la farcia usa spezie varie, zafferano e aceto, poi manteca i ravioli con burro e parmigiano e li condisce con la sua idea di garum, una salsa di origine romana fatta con piccoli pesci eviscerati lasciati a macerare nel sale per lungo tempo, riproposta in chiave sentimentale con aglio, alici, rosmarino e miele “perché così mi sembra di unire due epoche, quella romana e quella della mia infanzia”, spiega.
Nella sua versione della “carbonara”, come spiegato nel menu, Dandini non usa né pepe “perché è un falso storico, nella ricetta originale preparata dai pastori durante la transumanza non veniva utilizzato”, né albume “perché altrimenti sarebbe troppo proteica”, il guanciale viene inoltre cotto a fuoco basso e tagliato spesso: “In modo da rispettare la proporzione di due parti magre e una grassa”, non sottile come imporrebbe la tendenza attuale; infine la pasta, prodotta da un pastificio pugliese che utilizza solo grani antichi e la essicca lentamente a 38 gradi, viene servita tiepida per apprezzarne al meglio il sapore e i profumi.
Il “Risotto con rigaglie di pollo, porcini essiccati e alloro” assomiglia più ad un riso, poiché non viene mantecato in maniera classica: “Mi interessa che si senta maggiormente il sapore delle rigaglie rispetto al grasso”, spiega Dandini, c’è l’uovo a crudo e pochissimo olio perché “non conta la quantità, conta che sia buono”. Segue un godibile assaggio di “Scarpetta di coda alla vaccinara”, ovvero due fettine di pane fatto in casa, molto buono, saporito e dalla crosta importante, con sopra scaglie di cioccolato fondente: “Preferisco il cioccolato rispetto al cacao che di solito si utilizza nella ricetta, lo trovo troppo dolce”, spiega lo chef, e una coda scioglievole, cotta molto bene e a lungo, per circa 6 ore, da raccogliere con il pane.
Il dolce è soprendente, lontano anni luce da quello che ci si aspetterebbe dopo un percorso simile: “Cioccolato bianco liquido, crema inglese, olio, capperi di Salina e zenzero candito”, frutto di uno studio approfondito su sapori, gusti e consistenze che rende tutto incredibilmente bilanciato: “Questo dolce nasce per caso, io sono molto goloso di cioccolato bianco e quel giorno lo mangiai dopo il tonno scottato con i capperi e mi piacque subito il contrasto, il sapore che mi rimase in bocca, così cominciai a lavorare sull’acidità mancante che trovai nello zenzero, candito però, altrimenti troppo amaro”, racconta lo chef.
Spiazza anche la carta dei vini, non per l’ampiezza, ma per l’attenta selezione delle etichette provenienti anche da piccoli produttori, perché “tramandare implica dinamismo”, sottolinea lo chef, e questo porta in cantina ottime referenze che ruotano spesso, dagli spumanti agli champagne, fino ai vini bianchi provenienti da tutta Italia, anche naturali e biodinamici. Molto attenta la selezione del Lazio, non mancano poi Germania e Francia, non solo Borgogna e Loira, ma anche Alsazia e Provenza. Più ampia la selezione di vini rossi, soprattutto Toscana e Piemonte, poi Borgogna, Rodano e Bordeaux che completano una carta dei vini ben organizzata e in grado di soddisfare tutte le esigenze. Il servizio si adatta perfettamente al contesto, risultando garbato e informale.
Indirizzo
L'Arcangelo
Via Giuseppe Gioachino Belli, 59, 00193 Roma RM
Tel: 06 321 0992
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