La libertà creativa è un punto fermo nella sua cucina: Roberto Di Pinto racconta una Napoli senza confini e senza schemi, fatta eccezione per una semplice regola: “Non è la nostra serata, è quella dei clienti. Al primo posto ci sono sempre loro”.
Lo chef
Si potrebbero cercare termini complessi e sofisticati, belle frasi e giri di parole, ma quando un concetto è così forte, esplicito e radicato la cosa migliore è esprimerlo in maniera schietta: “napoletanità” è la parola che meglio rappresenta la cucina di Roberto Di Pinto. Napoletanità che non si traduce nel portare Napoli nel piatto, ma nel modo di ragionare, perché Di Pinto pensa in napoletano: nei suoi piatti le idee e la creatività, così legate alla terra di origine, si intrecciano infatti con le esperienze all’estero.
Napoli l’ha visto crescere, l’ha forgiato, lo ha fatto sognare e gli ha donato quel carattere inevitabilmente vulcanico che lo porta oltre i confini, alla ricerca di nuove esperienze, gusti e culture. Dall’estero Roberto è tornato ancora più napoletano: lì ha sviluppato un DNA di sapori partenopei sempre identificabili, che però nei suoi piatti trovano un’evoluzione del tutto inaspettata, spesso al limite, senza tuttavia mancare mai di rispetto alla tradizione. Napoli per Roberto è come un genitore che non imprigiona il figlio in schemi e cliché, ma lo lascia libero di trovare ed esprimere il suo io più profondo.
Il ristorante
Sine By Di Pinto, al 126 di Viale Umbria, è il luogo dove nel 2018 Roberto, dopo una ricca carriera nelle cucine di tutto il mondo e nell’hotellerie di lusso, rivela l’artista a tutto tondo che ha in sé. “Sine nasce come ristorante “gastrocratico”: dovevo entrare in scena in punta dei piedi con una cucina un po' più pop, dovevo farmi conoscere e creare la mia clientela. Sì, ero già a Milano da Bulgari, ma era come se fino ad allora avessi giocato in un altro campionato: l’hotellerie e il fine dining sono due mondi diversi. Dovevo farmi conoscere in modo indipendente. Dopo poco, ahimè, è arrivata la pandemia, ma nonostante la battuta d'arresto il delivery ci ha permesso di entrare nelle case di molti milanesi che non ci conoscevano. Ristabilita la situazione, forte del successo del delivery, ho capito che i tempi erano giusti per andare oltre”, confida oggi. Era giunto il momento di fare un passo in avanti e il rebranding era la via giusta; quindi, dato che i fatti valgono più delle parole, Roberto ha deciso di togliere fisicamente la scritta “gastrocratico” dall’insegna. L’anima di Sine rimane la stessa, ma è un'anima che si è arricchita ed evoluta.
“Il nome “Sine”, come “senza” in latino, è nato spontaneamente durante una vacanza a Ischia. Esprime la mia filosofia: Sine è un posto senza confini; qui le regole le rispettiamo, ma solo se sono a favore del cliente. Se, invece, non sono necessarie, le bypasso. Un ottimo servizio non prevede per forza la ritualità dei gesti o l’utilizzo di determinate tecniche. Il mio obiettivo è essere felice e per riuscirci devo far sì che lo siano i miei dipendenti, i miei collaboratori e tutte le persone che vengono a trovarmi. Ogni sera, quando facciamo la line up alle sette prima del servizio, mi piace ricordare a tutti che non è la nostra serata, ma è la serata dei commensali: i clienti non stanno venendo a vedere un concerto o uno spettacolo, ma stanno venendo a cenare”, prosegue Di Pinto.
Nel raccontare Roberto è impossibile non menzionare Gennaro Esposito, chef partenopeo per eccellenza e suo mentore. La folgorazione sulla via della cucina, per lo chef, è infatti un'esperienza breve: uno stage di appena un mese, a trent'anni, nelle cucine di Esposito, dove è riuscito a definire nel profondo la sua essenza. “A trent’anni sei più selettivo che a venti. Avevo alle spalle molte esperienze, ma tra i 20 e 30 anni culinariamente non avevo un'identità definita, ero ancora alla ricerca. Avevo appreso molto, ero passato dalla cucina molecolare a quella francese a quella asiatica: ce n’era di materiale, ma era confuso, tanto confuso. Al fianco di Gennaro ho trovato me stesso, ho trovato la mia Napoli. Quel mese è stato un vero shock emotivo, mi sono ritrovato in un luogo dove tutto era concepito per valorizzare il territorio, non solo nei suoi prodotti, ma anche nella sua storia e nell’antropologia. In quel frangente è come se mi fossi liberato dagli schemi e avessi veramente trovato me stesso: nella mia cucina c’è Napoli, ma non si ferma a Napoli. Napoli è la parte divertente, quella che mi rende felice”.
I piatti
San Gennaro e un corno rosso sgargiante sono solo alcuni degli indizi inequivocabili che non lasciano dubbi: è il regno di Roberto Di Pinto. Dall’ingresso, dove trovano posto diversi pezzi di design, omaggio alla cultura pop, si giunge poi alla sala principale. I colori sono caldi e le luci soffuse, lo sguardo viene subito rapito da una scritta al neon rosa: “Suona, ca sò suonne d’oro”, l’augurio dello chef ai commensali.
La mise en place è essenziale, ma attenta. Sulla tovaglia bianca spicca la statuetta di San Gennaro, come sigillo dell’autenticità dell’esperienza in cui ci si sta per immergere. Un’esperienza che, fedele all'abbondanza che spesso contraddistingue le tavole partenopee, inizia con un benvenuto dello chef composto da ben otto amuse bouche. Non c’è un ordine ben preciso da seguire, il consiglio dello chef è solo uno: “Iniziate dagli snack caldi, così ve li godrete di più” quasi a voler ribadire che la libertà della creatività è un punto fermo nella sua cucina.
Viene spontaneo partire dall’Uovo, l’unico snack da gustare con il cucchiaino -tutto il resto si mangia rigorosamente con le mani. Si tratta di una royale d’uovo di selva con pecorino stagionato in grotta di Carmasciano, olio di menta e composta di arance amare, dove la cremosità dell’uovo racchiude la balsamicità dell’olio alla menta. La gola conduce immediatamente all’assaggio delle celebri pizzette fritte di Di Pinto, in questo caso in versione mignon (il percorso è lungo!). D’estate il piatto napoletano per eccellenza è condito con zucchine, palamita marinata agli agrumi e mandorle.
A seguire le pommes crocchette di baccalà con marmellata di limone, zafferano e sedano rapa e un altro immancabile dello street food partenopeo, la frittatina di pasta con aneto, bottarga e ketchup di pomodoro: è subito Napoli. Dalle coccole calde si passa a quelle fredde, per prepapare il palato al gioco di texture, temperature e consistenze, tratto distintivo di ogni piatto dello chef. Un buffo maialino dorato nasconde il soffritto napoletano di maiale; un ragù che nella tradizione napoletana è realizzato con tutte le interiora del maiale e che qui trova la sua espressione più elegante trasformandosi “un foie gras pop” appoggiato su un biscotto di provolone del Monaco di Vico Equense.
Il tacos alle alghe con ceviche conduce oltre confine, ma il pensiero rimane a Napoli. Il ceviche, infatti, è napoletanizzato: al posto del leche de tigre lo chef usa gli ingredienti dell’acqua pazza- acqua di mare, pomodoro, limone e cipollotto. C’è poi la tartelletta di pane raffermo con insalatina di rape e una maionese di alici marinate che accompagna al Santo Graal della cucina della famiglia Di Pinto: il ragù della domenica. Il tipico sugo alla genovese qui è fedelmente riprodotto secondo la ricetta della signora Rosa, la mamma di Roberto.
L’Ostrica al Pisco Sour, dedica dello chef al collega Virgilio Martinez, in menu fin dal debutto, è la prima portata del percorso “Sine Confini”. L’Ostrica è una Kys e il pisco sour, cocktail simbolo del Perù, in questo piatto diventa granita. La carnosità del mollusco, esaltata dall’acidità del pisco, è una perfetta combinazione capace di far immergere il commensale nel percorso, che prosegue con lo Sgombro 45’. Qui il pesce azzurro viene marinato per 45 minuti con sale, alga kombu, katsuobushi, accompagnato dalla salsa tzatziki, ricoperto da un velo di rapa rossa e completato al tavolo da un estratto di salicornia. Al palato il sapore del pesce incontra l’umami della marinatura e la nota amara e salina della salicornia. Si torna sulla terraferma con la tartare di anatra affumicata, midollo e mallo di noce. Il petto e la coscia dell'anatra sono conditi con aceto di xeres, saba, salsa al midollo e mallo di noce; il gusto è deciso, ma elegante, e così anche la texture impreziosita dal crispy delle chips di amaranto.
Ci si addentra nei primi piatti con il Raviolo di pizza. Un raviolo realizzato come il tipico raviolo caprese; l’unico raviolo di pasta fresca dell’isola di Capri. L’impasto a base di acqua e farina è farcito con una vera e propria pizza margherita cotta nel forno a legna. Il piatto nasce dal desiderio di Roberto di valorizzare il “gusto pizza", piastrando la pasta in padella come accade per i gyoza (da crudo l’impasto è praticamente identico): con il cannello viene bruciata la parte esterna e il risultato, sia alla vista che all’olfatto, è proprio quello di una Margherita, impressione confermata anche dall'assaggio. Lo chef suggerisce di tagliarlo a metà per fare uscire il vapore e gustare il primo boccone con le posate, mentre il secondo rigorosamente con le mani, come si fa con la vera pizza napoletana. Un'esplosione di sapore, un piatto godurioso, espressione della cucina meridionale più verace.
Il viaggio di Di Pinto prosegue con il Risotto verde, limone e bottarga di tonno che, a buon titolo, può essere considerato un omaggio all’umami, sferzato dalla nota agrumata della buccia di limone grattuggiata e della polvere di limone nero. Il verde intenso regalato dalle 12 erbe aromatiche utilizzate è il preludio visivo di un piatto intenso e deciso, che svela un ricordo di selvatico.
Ci si avventura nel mondo delle proteine con il Rombo, accompagnato da cardoncello, zabaione d’ostrica, spinacino, panna acida e mirtilli fermentati. La carnosità, minimo comune denominatore tra il rombo e il cardoncello, conquista subito il palato, sorpreso poi dalla nota acida dello spinacino con mirtilli fermentati e panna acida e dal carattere voluttuoso dello zabaione. L’atto finale della parte salata è lasciato al Diaframma di angus americano cotto al barbecue. Alla base, tre salse di peperone differenti: giallo, rosso e verde. Tre salse con un accento che va dal piccante al dolce, ribadito dalla cipolla rossa di tropea cotta al forno sotto sale e poi caramellata. Stupisce il raviolo di guanciale con all’interno il wasabi, ovviamente napoletano: una crema preparata con le cime mature dei friarielli. La chiusura del sipario è lasciata alla scarpetta d’oro, inutile sottolinearlo omaggio al “Pibe de oro”. Il volto dorato di Maradona è disegnato sul piatto con dulce de leche aromatizzato al rococò napoletano; il pallone è un bao al mate, per l'immancabile scarpetta.
Foto dei piatti: @Antonio Monti
Indirizzo
Sine By Di Pinto
Viale Umbria, 126, 20135 Milano MI
Tel: +39 02 3659 4613