Nicola Laera apre nuove brecce nel portale d'accesso ai sapori dolomitici, rendendo il prodotto un fine e non un semplice mezzo d’espressione: ecco il suo menu “locale- internazionale” nel fine dining dell'Hotel Arkadia.
All'arrivo gli occhi sono tutti per lui, il Sassongher, fra le vette più svettanti dell'Alta Badia. Con le sue membra robuste, nude o coperte da uno spesso mantello candido, sembra vegliare su Corvara da qualsiasi punto lo si osservi. Ma, spostato lo sguardo di pochi metri, appare uno di quei luoghi dove la promessa di bellezza fa da premessa alla sostanza.
L'Arkadia potrebbe essere un hotel come tanti ai piedi delle piste, con la piscina protesa in linea d'aria verso i massicci rocciosi e le suite che iniettano il lusso nel derma dell'accoglienza ladina. Invece, all'interno si fa strada un'insegna che non teme di aprire nuove brecce nel portale d'accesso ai sapori dolomitici, rompendo il muro d'isolamento con la cucina internazionale.
Se, quindi, il nome di Nicola Laera suonerà noto a chiunque abbia i radar puntati sulle news gastronomiche di zona, il suo ultimo progetto sale in cima per guardare oltre i rilievi, ampliando a passo deciso il grandangolo visivo e gustativo.
Lo chef e l'Hotel Arkadia
Il tempo scorre, ma il vento, per Nicola, tira ancora nella stessa direzione. L'affinità elettiva con Norbert Niederkofler, da cui resta per 9 anni (2 come sous chef) dietro le quinte del St Hubertus; Madonna di Campiglio e il battesimo di fuoco alla Stube Hermitage, dove avvia la regia di una performance tutta sua; l'audience variegato della Stüa de Michil, col traguardo di una stella Michelin nell'Hotel La Perla: se si voltasse indietro, vedrebbe una lunga sfilza di piste nere che oggi sono solo l'ennesima scarica di adrenalina sul percorso.
Così, al Burjè 1968 -l'insegna-bandiera dell'Arkadia, tirato su dalla famiglia Coser proprio accanto la funivia- continua a cercare quella stessa sensazione, frugando indistintamente nella foresta o in una retata mediterranea, purché il prodotto resti il fine e non un semplice mezzo d'espressione. Nei suoi piatti scorre fluida l'energia della materia, che sia un riccio di mare trasformato in ragù o una ricotta di malga pronta a insinuarsi fra gli strati del millefoglie alpestre servito a fine cena.
E il setting va di pari passo, perché ogni spazio -dalla sala del gourmet, col suo velato romanticismo privo di eccessi decorativi, fino alle camere pacatamente moderne- contribuisce a definire uno stile "locale attuale", mostrando come sia possibile dare nuovo lustro all'architettura di montagna.
Il tutto lavorando di precisione sul legno (la reception, ad esempio, nasce dal reimpiego delle travi di uno storico maso di zona) o, ancora, affiancando al corner bar con terrazza una sala del caminetto che dilata i confini dell'ozio fra bevute tattiche e lente letture pomeridiane. Così, pian piano, ci si addentra in un labirinto nature plasmato a immagine e somiglianza dell'ambiente, senza perdere mai la bussola del godimento puro.
La cucina dell'hotel e il Burjè 1968
Al risveglio il languore retrocede di fronte a krapfen, yogurt di malga e fette extra di Linzer Torte, dal copioso intervallo di confettura ad allietare l'impasto, per poi placarsi definitivamente con un corso accelerato di norcineria altoatesina (se di solito schivate l'opzione salumi, l'aroma del buffet potrebbe farvi ricredere). Superato poi l'impasse fra un'escursione a 2000 metri e un'immersione nella vasca panoramica al terzo piano, il pranzo dà già un assaggio della proposta bistrot, saziando la curiosità con alcune preview territoriali.
Si può dunque optare per il Burger di manzo del maso Ciampidel, l'intenso Gnocco di formaggio grigio con insalata di cappuccio e speck o, ancora, i sottili Spinosini (fili di chitarrina) su fonduta di Cerato, cardoncelli crudi e tartufo, con un dolce epilogo di Strudel o Kaiserschmarrn (lo snack super size a base frolla che conforta gli sportivi in alta quota, qui arricchito da salsa di mirtilli e gelato alla vaniglia).
Fregio della cantina è, invece, una nicchia di etichette immerse nel cono d'ombra della piccola produzione, che il maître e sommelier Massimo Di Berardino mette in luce con un censimento quotidiano di aziende mai scontate. La conferma giunge ascoltando i suoi aneddoti nel vivo della cena, fra candele appena accese e bottiglie che innescano il racconto sui tesori nascosti dell'Alta Badia.
I piatti
Dimenticate cibi da cartolina o accostamenti mainstream: se c'è una cosa che il Burjè dimostra, è come si possa puntare sulle proprie risorse solo trovando il modo di introdurle al mondo. Ne discende una cucina sensibile a usi e visioni globali, che sfiora talvolta lo scibile asiatico ed altre la solidità francese, restando però figlia di un'unica Casa Madre: l'Alta Badia, zona di osservazione privilegiata su un panorama unlimitless.
Tradotto, significa percorrere centinaia di chilometri col palato in allerta, restando fisicamente fermi nello stesso paesino di 1300 anime dove si è parcheggiata l'auto all'arrivo. La scelta indugia tra due menu -di 5 o 7 portate- col turno serale bipartito per dare il giusto respiro alla sala.
Ai blocchi di partenza un ciuffo di burro scattante, che corre veloce sul pane in stile Altamura fino a coprirne completamente gli alveoli. Ed è proprio il farinaceo -stavolta a prova di morso- l'accento acuto della Battuta di filetto di bue autoctono, maionese all'aglio orsino e ravanelli dell'orto al miso, coperta a pioggia dallo Schüttelbrot, un disco crock facilmente conservabile le cui origini si perdono nella storica schiscetta dei pastori altoatesini. In bocca, l'umami della pasta fermentata e delle acciughe "di rinforzo" porta la carne un tono più su, sfruttando d'ingegno il sale naturale.
Regola i conti con lo iodio la Zuppetta di lumache del Gran Sasso al burro acido, prezzemolo e caviale di trota, un tetris di liquidità scomposta che parte dalla coccola cremosa e scivola nell'esplosione a sorpresa, con le uova di pesce rotonde in chiusura.
Tinte pastello, aromi gentili e il carboidrato entra a passo di danza: nel Risotto lo chef dà voce al frutto, mentre il cucchiaio infrange un'onda mantecata di mela verde, radice di wasabi, caviale, kefir e levistico. Il segreto sta nel "doppio burro" di malga -acido e al wasabi- "con la radice raccolta da noi e incorporata pian piano all'elemento grasso". Non a caso, colpisce l'avvolgenza fresca e rampante: quasi un "tessuto tecnico" capace di unire l'aspro della mela e della panna al kefir (prodotta settimanalmente in brigata) alla densità del chicco.
Da un amido all'altro, il Fusillone di Assante in salsa di granchio, guazzetto di capperi, ricci di mare e burrata è il barometro di un percorso che mette in fila i caldi-freddi sullo stesso screen acceso. "Amo unire i latticini al pesce per attivare lo scambio fra la parte sapida e quella tenue-succosa". Si va quindi ad addolcire il sugo a base di colatura di alici e peperoncino fermentato, smorzando insieme anche il flusso di calore.
Ma il bestseller è forse l'Animella fritta di vitello con finferli, funghi shitake marinati in salsa ponzu, salsa olandese e tartufo, indice di una "sana mania" per le fasi pre-cottura. Fra i secondi in rimonta dell'alta cucina, al Burjè cambia pelle con un bagno di 48 ore nel latticello, che addomestica la fibra in vista del sottovuoto. "Poi la raffreddiamo con acqua e ghiaccio per lo shock termico, e a seguire viene impanata variando la consistenza all'esterno: così il cuore resta fondente".
Close-up, infine, sul dolce, nato da un armistizio con specie tutt'altro che facili da trattare: "Curiamo una pianta di cassis che dona un ribes nero estremamente acido e tannico. Cercando nuove strade per utilizzarlo, ho pensato di comporre il dessert con il sambuco, che cresce naturalmente a 1600 metri in tarda estate". Quest'ultimo diventa sorbetto, il primo una granita fine, più un cremoso allo yogurt e un bis di nocciole (crumble - sabbiate) per il rilancio vivace di masticazione. Letteralmente, into the wild.
Crediti Fotografici: @Mattia Davare
Indirizzo
Hotel Arkadia- Ristorante Burjè
Str. Burjé, 11, 39033 Corvara in Badia BZ
Tel: 0471 836043