La caratteristica preminente di Iacobucci è quella di non crogiolarsi mai nei suoi successi, ma di correre sempre verso nuovi obiettivi. Così, procede spedito il progetto dell'orto: in menu molte corse vegetali e un registro nitido, che si esprime nel punto preciso d'incontro fra eleganza e goduria.
Il ristorante
Sembrerebbe di iniziare dalla fine, raccontando del babà dello chef Agostino Iacobucci, ma del resto il nostro incontro parte proprio da lì, appena varcata la soglia di Villa Zarri a Castel Maggiore. Ci fa cenno di raggiungerlo in cucina e ci immergiamo nell’universo incantatorio del suo babà, dove avviene la messa in opera di un dolce che si può dire chiaramente sia entrato nel mito. È alla fase finale dell’impasto, dove viene lentamente incorporato il burro per poi essere trasferito negli stampi, dopo una lavorazione manuale di una perizia talmente aggraziata, fine e delicata che quasi si stenta a credere provenga da questo possente giovanottone.
Una grazia che pervade da sempre tutta la cifra dello chef quarantatreenne di Castellammare di Stabia e che negli ultimi quattro anni, da quando ha aperto il locale che porta il suo nome in questa incantevole villa cinquecentesca, ha sempre puntato a migliorare, a tenere il passo di una evoluzione incessante. Perché la caratteristica preminente di Iacobucci, fregiatosi della prima Stella Michelin nel 2010 a La Cantinella di Napoli per poi confermarla a I Portici a Bologna e conquistarla a Villa Zarri dopo una manciata di mesi dall’apertura, è quella di non crogiolarsi mai nei suoi successi, ma di correre sempre a più non posso verso nuovi obiettivi.
Uno di questi è ora la certificazione Plastic Free: “Abbiamo intrapreso il processo di transizione - ci dice lo chef - con l’obiettivo finale della totale eliminazione della plastica monouso, seguendo gli standard e le procedure operative di Plastic Free Certification Società Benefit, l’unica in Europa, che ha seguito la certificazione di altri stimati colleghi”.
Procede spedito il progetto dell’orto, che occupa una porzione dei tre ettari di parco in cui è immersa la villa, dove lo chef accompagna sempre molto volentieri gli ospiti che hanno piacere di vedere dove cresce una rilevante percentuale di ciò che hanno appena gustato a tavola. “Anche se non ho il tempo materiale per occuparmene personalmente - racconta Agostino - amo stare nell’orto, passeggiare fra i filari di pomodori, vedere la crescita di peperoni, melanzane, raccogliere le erbe aromatiche, è così che approfondisco la conoscenza della materia prima che mi porta poi all’idea e all’intuizione per arrivare al piatto”.
E in effetti molte corse sono improntate al vegetale, uno dei menu degustazione è vegetariano, sempre e comunque con il registro nitido che contraddistingue lo chef, traducibile in un dominio del gusto, netto e terso, che si esprime nel punto preciso di incontro tra eleganza e goduria, senza mai farsi fagocitare dal manierismo. Con un approccio estetico esibito con estrema naturalezza, prosecuzione di quello del luogo che lo ospita, una ex dimora signorile dal grande fascino storico.
I preziosi affreschi del salone risalgono al ‘700, quando la villa, costruita duecento anni prima, venne completamente ristrutturata. Oggi accoglie i nove tavoli che compongono la sala del ristorante, gestita da Ambrogio Luiselli, alla conduzione di un servizio che scorre amabilmente e che soprattutto ha saggiamente bandito la rigidezza che spesso è appannaggio di luoghi storici e di imponente bellezza come questo. In cantina stazionano circa settecento etichette, di cui una sessantina appartiene a vini naturali, biologici e biodinamici. Mentre in quella che un tempo era la scuderia della villa, la proprietà, la famiglia Fini Zarri, ha aperto una distilleria che dagli anni ‘90 produce qualche decina di migliaia di bottiglie di distillati, tra cui un brandy che tutt’oggi si posiziona fra i migliori cognac del mondo.
I piatti
Il welcome dello chef è tutto finger, da mangiare con le mani, una sfera nera che funge da scrigno per una parmigiana di melanzane di cui fare un sol boccone. Una crocchetta ricoperta di una croccante panatura di panko che custodisce uno stracotto di agnello, la cui dolcezza si contrappone a un cremoso di erbe amare.
Il cannoncino è farcito da una crema di bufala e all'esterno pomodoro e basilico a evocare le origini partenopee dello chef. Taco di mais, cremoso di avocado, tartare di tonno rosso e yuzu, per passare al ravanello fermentato in aceto di riso e lampone, con maionese d'ostrica. E terminare poi con un macaron al pistacchio con all'interno una spuma di mortadella che ci riporta in Emilia.
Portabandiera del serrato lavoro sul vegetale che lo chef sta compiendo, ecco un saggio dal menu vegetariano, un gelato all’estratto di piselli, comprensivi di baccello, quindi totalmente no waste, guarnito con germoglio e fiore. Piselli freschi sgranati invece ricoprono la ricotta di bufala contenuta nella tartelletta, a cui si aggiunge un cucchiaino di caviale Asetra per il gioco dolce-sapido. A chiudere, l’elisir di finocchio, mela verde, cetriolo, zenzero per un sorso di freschezza leggermente pungente.
Un carpaccio tutto vegetale, quello al sedano rapa, prima cotto in crosta di sale per condensarne il sapore, poi affettato molto sottile, ma dal morso tenace, accompagnato da un cremoso di mandorle, uova di trota salmonata affumicata per il push iodato e olio al rosmarino per l’avvolgenza balsamica.
Il corredo dei pani include, oltre la pagnotta semi-integrale di grani antichi e lievito madre, grissini all’olio tirati a mano, cracker con semi di papavero e sesamo bianco e nero, l’ormai mitologico tarallo napoletano con mandorle tritate, sugna e pepe. Da ornare con burro demi-sel di Normandia
Altro vegetale protagonista nel piatto è l’asparago, presentato nature, sia in versione intera, che tagliato a fette longitudinali sottili, dove la sensazione di astringenza e i suoi sentori sulfurei si rimpolpano con la rotondità di una spuma di pecorino e si acutizzano con l’acidità citrica di agrumi, in forma di gel e di piccole sfere di estrazioni di arance, limoni, yuzu.
Sottili e croccanti lamelle di daikon ricoprono il gambero viola che, insieme all’ibisco, intervengono sul crostaceo, pungendone e acidulandone la dolcezza, con l’intervento della salsa di erbe amare e del caviale a variegare ulteriormente le nuances, fra sapido e amarognolo. Una maionese dello stesso gambero media tutte le note, riunendole in una piacevolissima avvolgenza.
Granchio, mitili e ricci di mare fanno da ripieno a un calamaro che si fa scrigno di una sfaccettata intensità di sapori, addizionata di ulteriore vigore gustativo grazie alla bisque che lo chef vivacizza con la pungenza del curry e la freschezza di un gel agrumato.
L’anguilla comacchiese è particolarmente nelle corde di Iacobucci, che riesce mirabilmente a disciplinarne la parte grassa lavorandola con soia e agrumi. Partendo da una leggera affumicatura, accostandovi poi una crema di mandorle e pinoli, gel di yuzu, salsa ponzu e tosazu. La freschezza vegetale è appannaggio di una misticanza vaporizzata al gin, che al tavolo viene irrorata da una vinaigrette a diversi aceti di soia.
Su una sorta di scacchiera di salse ai peperoni verde, giallo, rosso, con la loro caleidoscopica scala fra erbaceo e dolcezza, si posa il trancio di rana pescatrice, che si avvale della punteggiatura di maionese di ricci di mare per intensificare l’ittico e rendere più procace la sua delicatezza.
La seppia è uno dei piatti in cui si rappresenta al meglio il piglio estetico dello chef, è non è certo da meno in termini di eleganza del gusto. Viene ricoperta da un spuma d’aglio, rigato da una salsa del suo nero, una polvere di aglio nero, zest di lime e olio di ‘nduja. L’essenza marina esaltata con estrema sensibilità da acidità e leggera piccantezza.
Anche l’animella di vitello trova uno stato di grazia assoluta fra il gel di tosazu, con il suo umami lievemente acido e lo spettro aromatico della mela annurca, qui in crema; con il dragoncello a irrompere con le sue note amarognole di anice e liquirizia.
Di vocazione comfort e ricodificato in versione alta cucina, il raviolo ripieno alla genovese di coniglio viene laccato con tre tipi di cipolla, a cui la nota di fumo della provola affumicata regola la dolcezza, aggiungendo comunque rotondità. Il tartufo, interviene con il sentore di carattere.
“Napoli incontra l’Emilia", la migrazione geografica dello chef racchiusa in una sfoglia. Questi tortelli sono diventati da subito il suo piatto simbolo, perché rappresentativi di una fra le più riuscite fusioni di ricette regionali italiane. Il classico ragù napoletano diventa il ripieno dei tortelli, serviti con una spuma di parmigiano 36 mesi e gel al basilico.
Il controfiletto di agnello viene cotto al fieno e in tutta la sua succulenza si addobba di una salsa al pistacchio, una al Castelmagno e una al lampone, che si adoperano per variegarlo di aromaticità e note differenti, dalla sapida decisa all’acida vegetale. La pancia dell’ovino viene servita a parte, con la cotenna leggermente glassata, in compagnia di salsa al pistacchio e ai lamponi.
Il pre-dessert è un gelato al latte di bufala servito su un crumble al cioccolato che si posa su una raffinata emulsione di lampone e peperone, completato da una spolverata di polvere di cappero. Particolarmente azzeccato l’accompagnamento con l’irpino Cerri Merry di Cavalier Pepe, un aglianico che macera con ciliegie e amarene, da un’antica ricetta di famiglia.
Del Babà Agostiniano risulta ormai superfluo ripetere che è a tripla lievitazione, umettato da una bagna agrumata, dalla miriade di essenze, etereo, letteralmente incorporeo, forse addirittura ologrammatico per come si dissolve al tocco della parete palatale. Probabilmente l’unica definizione che rimane da dare è che vive di una dimensione ontologica propria, da archetipo. Archetipo che comunque si appoggia a una spuma al doppio latte e a una salsa ai frutti rossi. Ricercatezza e golosità anche nella piccola pasticceria che prevede canelés bordelais all’albicocca, marshmallow al lampone, finta arachide alla nocciola, sfogliatella.
Indirizzo
Agostino Iacobucci Ristorante
Via Ronco, 1, 40013 Castel Maggiore BO
Tel: 051 459 9887