Marco Pierre White a sessantun anni smonta la narrazione della cucina tossica: “La mia reputazione è un prodotto dell’esagerazione e dell’ignoranza, sono sempre stato un classicista. Lavorando cento ore a settimana, come avrei potuto fare il ribelle? Non avevo nemmeno il tempo per tagliarmi i capelli”.
L'opinione
Se Marco Pierre White si è fatto largo a colpi di spaccaossa nel lussureggiante immaginario della gastronomia, è stato più per il personaggio che per i piatti, appena ricordati dai più. Nessuno come lui ha incarnato dannazioni e redenzioni di un lavoro maledetto, che tuttavia continua a far sognare. Quando un altro romantico, il povero Jock Zonfrillo, recentemente scomparso, si è affacciato nel suo ristorante ad appena diciassette anni, lo chef britannico non ha potuto che intravvedere un alter ego. “Il suo entusiasmo era maggiore della sua conoscenza, ma potevo relazionarmi con le sue insicurezze”. Lo scozzese dal canto suo lo vide subito come una figura paterna: “Di tutti gli chef con cui ho lavorato, è stato il maestro migliore”.
A quei tempi il sangue ribolliva: primo e più giovane chef britannico ad agguantare le tre stelle a trentatré anni, White avrebbe mollato quattro anni dopo, nel 1999, per fare il ristoratore, meglio conciliando lavoro e vita privata. Ora però vuole scrollarsi di dosso una volta per tutte i cliché, che lui stesso ha alimentato nei suoi variopinti bestseller. “Come avrei potuto essere un ragazzo selvaggio? Lavoravo in cucina sei sere a settimana, per oltre 100 ore, quindi come avrei potuto? La mia reputazione è un prodotto dell’esagerazione e dell’ignoranza. Sono sempre stato conformista e classicista. A chi aggrediva il mio staff, chiedevo di andarsene. Ma avevo i capelli lunghi, belle donne e stelle Michelin, quindi ero perfetto per il Daily Mail, uno chef rock and roll. Lavorando così tanto, non avevo tempo per farmi i capelli”.
“Per quanto la gente pensi a me come una creatura selvatica, in realtà sono esattamente l’opposto, sono molto conservatore, molto tranquillo e timidissimo. Sono un introverso di natura, anche se mi sono sforzato di fare il mio percorso nella vita. Sono molto solitario”, insiste. “Oggi si pensa che le cucine fossero Hell’s Kitchen di Gordon Ramsay, ma non è vero. Quello è teatro. Non erano così, erano dure perché si lavorava tanto e in fretta, quello sì. Gli chef urlavano per chiamare le comande e guidare le truppe, non erano abusanti come si pensa”.
Se c’è un episodio che sempre richiama, è la scomparsa della madre per un aneurisma quando aveva sei anni. “Quando ti capita una cosa del genere, non dai più niente per scontato. E quando sei giovane, tendi ad avere fretta. Il motivo è che avevo il terrore di morire prima di aver realizzato i miei sogni. Mi nascondevo in cucina, era un mondo dove potevo operare, essere Marco; quando ne sono uscito avevo paura, ero ormai istituzionalizzato. La morte di mia madre mi aveva colpito così a fondo, che non comunicavo con le parole, ma con le dita, svolgendo il mio lavoro”.
La cucina che oggi si mangia in giro lo lascia piuttosto indifferente. “C’è troppa enfasi sulla presentazione rispetto al cibo. Oggi ti danno questi piccoli soprammobili, come una festa di canapé tiepidi. Non ho abbastanza pazienza perché mi servano un pasto lungo 4 ore composto di 12 o 20 corse. Non riesco a immaginare niente di più noioso”. Oggi poi la giovane figlia Mirabelle ha deciso di seguire le sue orme e sta lavorando nella pasticceria di Le Manoir aux Quat’ Saisons, come il padre quarant’anni prima: “Penso che in generale le donne in cucina siano migliori degli uomini. Di solito hanno palati migliori, sono più puntuali e costanti sul piatto. Guardo Mirabelle: è molto costante, veloce e motivata”.
Fonte: The Age
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Fto di copertina: @HOTA