Nell'intersezione fra Art Nouveau e ospitalità galante, Massimo Viglietti torna in pista con un menu colto dall'inconfondibile timbro rock. Al Lord Byron la cucina dello chef ligure prende una piega matura, conservando la sua giocosa irriverenza.
Relais Les Jardin
Nel nostro hard disk mentale di sapori, il contrasto è uno dei file più gettonati. Forse perché il cervello sviluppa un appetito crescente verso tutto ciò che esonda dagli argini dell'uniformità. Così, tendiamo a ricordare soprattutto i piatti animati da opposti che convergono, non tanto in un pacato stato di equilibrio, quanto in un continuo ping-pong di stimoli destinato a concludersi solo dopo aver deposto la forchetta. Massimo Viglietti lo sa da sempre e ne ha fatto un “taste code” che finisce per accomunare vecchie e nuove creazioni, tutte scandite dalla stessa cifra irriverente.
Ma la sfida maggiore doveva ancora arrivare, e sembra che abbia appena assunto i contorni del Lord Byron, fascinoso hotel romano dove trent'anni fa nasceva il primo fine dining premiato con 2 stelle Michelin della città: è qui, nell'intersezione fra Art Nouveau e ospitalità galante, che lo chef ha da poco trovato dimora, gettando le basi di una cucina pronta a nutrire il turista pretenzioso non meno che il food scout romano, senza lasciare a bocca asciutta gli irriducibili fan del lusso à manger.
Mission impossible? Non proprio. L'impronta di Relais Le Jardin -questo il nome dell'insegna- sta a volte nella teatralità del cibo, altre nel racconto del maître o nel contenuto del bicchiere. Il contrasto, però, non manca mai, e mette al riparo la carta da qualsiasi prevedibile etichettatura.
L'hotel e il ristorante
I pochi secondi impiegati a calcare la scalinata esterna danno appena il tempo di chiedersi se il menu terrà il passo col turgido stile decò che fa dell'albergo un flashback negli anni '30. Chiamato anche "piccola casa bianca", il Lord Byron vede oggi alla barra Francesco Piccinni, nipote del fondatore Amedeo Ottaviani e accogliente Virgilio dei nuovi arrivati.
Basta poco per distrarsi fra le mini-sculture zigzaganti e i dipinti d'epoca che affollano il salottino d'attesa, ma è solo una volta giunti in sala che il quadro si ricompone definitivamente. Il cocktail bar già operativo nelle sue fluide acrobazie, le poltroncine imbottite, i tavoli rischiarati con discrezione e l'alternanza bianco-nero: tutto racconta un buongusto silenzioso che lascia al cibo il giusto margine d'azione.
Ed è questo il momento in cui lo chef squarcia il velo dell'attesa. Difficile tracciarne un identikit lineare: pur navigando a lungo nelle placide acque della ristorazione gourmet, Massimo Viglietti ha sempre avuto la stoffa dell'outsider, pronto a imbastire regate improvvise senza mappa alla mano né tappe obbligate. Sicché, dopo l'incipit come figlio d'arte al Palma di Alassio -storico locale di famiglia con 2 macaron- molla gli ormeggi per attraccare nei presidi di grandi nomi francesi quali Paul Bocuse, Louis Outhier e Roger Vergé. Noi lo ricordiamo qualche anno dopo, forte di una stella Michelin nella frame luccicante di Achilli al Parlamento, dove elimina il separé dolce-salato rimodellando l'architettura del pasto; eppure, nella bio c'è anche spazio per diversi libri (ultimo "MeTe", pubblicato nel 2021) e un passaggio da Taki Off, sempre a Roma.
Poi la svolta: secondo chi scrive, l'attuale percorso degustazione punta a sedurre anziché stupire, grazie a una maturità tecnica che guida la mano senza troppi funambolismi o giochi di prestigio. Viglietti is back, ma la sottile vena provocatoria è mutata in un fil d'or di esperienze e ingredienti preziosi, per incontrare il favore della platea oggettivamente sfaccettata che gravita intorno all'asse del Lord Byron. Rimane, invece, un punto fermo il linguaggio "colto" dei tasting, sempre imbevuti di riferimenti musicali, geografici e persino filosofici. Così, ogni pietanza mescola antichi usi regionali con una punta di sfarzo, portando spesso l'Oriente sulla via della Liguria.
Dietro le quinte, una valida spalla come Valerio Mercadante, giovane promessa della cucina di ricerca, mentre la sala mostra di volta in volta una precisa identità nella scelta del pairing, sintonizzato sulle frequenze delle singole portate. Ne sono un esempio sia il ricorso ad etichette "fringe" (vedi il Campolavico Maar Igt, con la coltivazione di vitigni esclusivamente autoctoni che traggono forza dal suolo vulcanico laziale), sia la proposta analcolica, a base di cocktail pensati sul momento.
I piatti
Tre i menu a sorpresa, accomunati dal dripping rock su tela neoclassica: un contrasto evidente, si diceva all'inizio, attutito però dalla voce fuori campo di un certo "lusso rituale". Si può optare per Impressioni (cinquina breve, ma intensa), Viaggio (di maggior struttura, con 7 portate), e Concerto (una "lirica compiuta" in 9 tempi). Il saluto iniziale è palesemente bilingue, con influenze giapponesi che iniettano sapidità nei bocconcini spezzafame. È il caso del Raviolino fritto ripieno di guancia di maiale e salsa tonkatsu, dall'involucro impalpabile e il nucleo pastoso, oppure del Baccalà marinato, alga e mousse di yuzu -citrico e piacevole, ma un poco sbilanciato sul topping, col rischio di oscurare il pesce stesso. Convince l'idea di accostare alla Panissa ("polentina di ceci" fritta) lo storione e un fondo pungente di caffè, che ripulisce le guance dalla farinosità dello street food ligure.
Anche per gli ultras del carboidrato c'è di che esultare; lo chef, infatti, dopo aver proposto una pagnottina semintegrale lievitata 72 ore con burro di Normandia al frutto della passione e trancetti di focaccia genovese, tramuta le eccedenze in un pancotto alle erbette, che annulla lo spreco e moltiplica i sentori vegetali sulla scorta del riuso.
Punto e a capo, arriva il Lardo, totano, cremoso di brie, ditali e pepe asakura sansho. "Un'assemblage che omaggia la 'cucina bianca' delle Alpi marittime e liguri, basata su elementi facilmente reperibili come patate, farina, formaggi e verdure", chiosa lo chef. Qui, però, il retroterra povero si arricchisce di un'allusiva foglia oro, quasi a svelare il fascino nascosto dell'essenza.
Calato il cucchiaio, il tappetino d'atterraggio ha la trama di una morbida mousse lattea in cui il brie arriva potente, per dare man mano il cambio al mollusco e al velo di grasso sul fondo. Regalità minimal: una manciata di prodotti apparentemente solitari che fanno amicizia step by step. Dal candore monastico ai bagliori fluo, d'un tratto ci si ritrova al luna park. Zucchero filato, dunque, come gioco evanescente per coprire di mistero i gamberi crudi con pinoli, emulsione di basilico e foglia di cappero. Un sillogismo che fa gola, laddove la dolcezza del crostaceo sposa convinta il vaporoso snack da passeggio, mentre il cappero dona asprezza e la salsa erbacea contrasta il climax di rotondità.
Si volta pagina con lo Spaghettino cotto direttamente in fondo di triglia, foie gras spadellato e caviale, sintesi di un fasto senza tempo che lusinga le papille. Al bando i convenevoli: dietro l'illusoria ostentazione brilla un guizzo di genio, complice la totale assenza di sale e grassi aggiunti nella ricetta.
Segue un Piccione in tre passaggi di immediata lettura. Il petto fondente effetto mou sotto la lama del coltello; la carne stile lollipop sull'osso, fasciata da uno strato di panatura aderente; le interiora ridotte in crema, a riempire un millefoglie di cialdine salate. I picchi di gusto fanno pendant con le cipolle al mandarino, che a tratti richiamano la dolcezza delle carni, a tratti ne amplificano l'eco ferroso. Niente voli pindarici, Viglietti prende quota con lo studio del prodotto. "Perché, di solito, il piccione appare soffocato da salse e salsine. Volevo fare esattamente il contrario: restituirlo al palato tal quale".
Val bene un assaggio pure il dolce-non dolce con Pomodorini flambé e moka al pomodoro. A introdurlo, un assunto tanto semplice quanto incisivo: "Questo ortaggio, in principio, non era automaticamente associato alle portate principali; avendo un rapporto equilibrato acidi-zuccheri, appianava i confini già sfumati tra pasto e fine pasto". Quindi, perché non affidare ai pomodori canditi la conclusione del percorso? Dalla macchinetta del caffè esce un brodo pregno di aromi: il sugo domenicale epurato dai lipidi e fatto drink. Per chi soffre la pasticceria a pancia piena, sarà un regalo doppiamente gradito.
Foto: @Andrea Di Lorenzo
Indirizzo
Relais Le Jardin- Hotel Lord Byron
Via Giuseppe de Notaris, 5, 00197 Roma RM
Tel: 06 322 0404
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