È salpata da Porto Recanati la nuova sfida del duo di Montemonaco: un locale su misura per una cucina rinnovata, che nell’elaborazione del lutto trova motivi di poesia e la dolcezza della resilienza.
La Storia
La Storia del Tiglio in Vita
Come in una favola: c’è voluto l’intervento del deus ex machina, al secolo Luigi Guazzotti, leader mondiale dell’automotive computing, volgarmente detto tassametro, per avviare al lieto fine la parabola di Enrico Mazzaroni. Uno dei talenti più limpidi della sua generazione, sfiorato a più riprese dalla tragedia e poi miracolato, per l’ennesima volta dopo il terremoto dello scorso 30 ottobre che ha decretato l’inagibilità del Tiglio a Montemonaco, sui Monti Sibillini, appena tirato a lucido dopo una dispendiosa ristrutturazione. Oggi in odore di santità fra i fumi di cucine riaccese.
“Mia moglie è morta”, dice rimpiangendo le mura crollate. Ed è un destino beffardo, nel male e anche nel bene, visto che la ripartenza è stata bruciante, grazie a mezzi che Mazzaroni, ancora affiancato dall’inseparabile Gianluigi Silvestri, non si sarebbe mai potuto permettere. È stato Guazzotti in persona, desideroso di aprire un ristorante di livello, ad avviare il ticchettio contattando “i più bravi”. Senza lesinare sulle spese durante una ristrutturazione tanto rapida quanto integrale: i pavimenti sono in kerlite color panna, le sedie in legno Carl Hansen, la cucina Zanussi, i tavoli per metà nudi e per metà vestiti, a significare che l’unica regola è non averne. Ma non basta: appena avviato il ristorante si svolgerà la seconda tornata dei lavori, con l’avanzamento del terrazzo esterno, delle vetrate sul mare e delle cucine, il possibile posizionamento di un tavolino sul tetto per serate speciali e di un orto sospeso come un giardino pensile babilonese.
In cucina è il momento dell’elaborazione del lutto, ispiratore di nuovi motivi poetici. Significa nostalgia del paradiso perduto, con il richiamo ricorrente a materie di montagna, che continuano ad arrivare settimanalmente da Montemonaco per il tramite di papà Giuseppe e mamma Anna, soprattutto animali di cortile, ortaggi, farina ed erbe spontanee. Lo schema prevalente è infatti il “mari e monti”, quasi una cicatrice che chiude la ferita della faglia. Ma c’è anche del nuovo: un desiderio di casa e di comfort, morbidezze inusitate in una cucina che si era fatta notare per le sperimentazioni organolettiche e la spavalderia amara, in linea con la migliore avanguardia italiana. E che invece si scopre sorprendentemente armoniosa e talvolta perfino neoclassica, a spezzare stilisticamente il rischio di monotonia nel menu.
È il momento del pesce, ingrediente quasi assente al vecchio Tiglio, agriturismo obbligato a lavorare materia in gran parte propria. “Ed è una stoffa nuova da tagliare, anche se lo stile è sempre il mio. Per familiarizzare sono andato spesso al mercato, ho conosciuto semplici pescatori, grandi e piccoli fornitori marchigiani, che oggi provvedono al mio approvvigionamento. Tante cose non le conoscevo, per esempio il quinto quarto di mare. Così ho dovuto studiare la stagione della riproduzione, cosa si può usare e cosa no, anche grazie agli anziani del posto, che mi hanno aperto un mondo. Senza smettere di privilegiare la materia povera, quindi acciughe, moscioli, triglie e gallinelle al posto degli scampi, con il pescatore che ci mette da parte gli scarti e noi che lo ricompensiamo per la fatica”.
La brigata ha seguito lo chef dai Sibillini: ci sono ancora il sous-chef Federico, Alessio e Francesco. E per miracolo si è salvata anche gran parte della cantina, in via di ampliamento (soprattutto nei bianchi) sul fronte dei piccoli produttori marchigiani, preferibilmente naturali, meglio ancora se anconetani; se ne occupa come sempre Gianluigi. Continuità anche nei ricarichi, davvero contenuti, e nei prezzi dei due meni: La nuova storia (44 euro) e In vita (63).
I Piatti
Tartufino
Gli appetizer sono quelli di Montemonaco, con un’ambientazione balneare su sabbia commestibile: il tartufino di formaggino Mio, qui a forma di stella marina, la sfoglia di pomodoro e quella di tapioca, la pallina di acciughe e la crocchetta di Parmigiano.
Poi prende il sopravvento l’amaro, per un inizio di tradizione italiana e perché è il gusto della montagna da cui parte il viaggio del cuoco Mazzaroni, in transito verso la sapidità marina. In questo caso non si tratta di funghi, erbe o radici, ma di un’estrazione di foglie di abete, su cui giacciono acciughe di lampara marinate per un giorno in una miscela di olio e colatura, più una spolverata di pecorino di fossa per l’equilibrio amaro/sapido. In contrasto, sotto il profilo gustativo, termico e culturale, c’è quale secondo servizio mignon la pallotta cacio e ova, calda, grassa, tradizionale, con l’aggiunta di acciughe nel ripieno su una maionese di albumi sempre all’abete.
Segue la rilettura della patata sotto la cenere, qui bollita e fritta in una pastella stile tempura alle vongole, servita con il solito caprino stemperato nella panna e un’emulsione di molluschi. Fish & chips di nuovo conio.
Crocchetta di Parmigiano
Ci si rituffa nell’amaro con la coratella di mare, approntata secondo il modello dell’agnello nei Sibillini, con le polpe se non tritate, tagliate finemente e l’aggiunta dell’uovo, in questo caso una bernese, prima avvisaglia di un rigurgito neoclassico destinato a ricorrere, in sintonia con le voglie contemporanee e sulla scia di un vecchio stage a Les Ambassadeurs di Piège. Si tratta di fegati e sacche vari appena croccantati in una padella rovente e legati con le uova di pesce disponibili, più un pizzico di paprica a spezzare.
Il passaggio dal pesce alle carni si compie attraverso lo stacco di una melanzana glassata in stile Romito con sakè e polvere di miso, dove è la nota alcolica a resettare. Segue quindi, un po’ meno complesso dei precedenti, il fegato fritto di coniglio con rognoncino poché nel burro, salsa alla senape e shiso fritto, per la connessione sentimentale a Montemonaco, di cui rappresenta una specialità.
La stoffa di Mazzaroni però è nel tris che segue. I bottoni ripieni di pesto crudo di tarassaco e nocciole dei Sibillini, limpidamente amari con un leggero correttivo grasso, tuffati nel brodo di alghe e funghi che è puro umami, con gli shiitake fritti a riprendere la nota nocciolata.
Soprattutto la minestrina di nonna Caterina, preparata come una volta con il brodo di gallina ben occhiato e le stelline, legato al burro e al Parmigiano, la cui carezza comfort è bilanciata dalla mineralità tagliente di ostriche, telline e cannolicchi crudi, più una spuma di cedro a rinfrescare e profumare. Dove il grasso rimbalza morbidamente lo iodio.
Ottima anche la gallina cotta confit nell’olio per 10 ore, per una testura succulenta, e servita in insalata con il filetto di gallinella appena scottato, i funghi galletti a rilanciare il gioco di parole, il crumble per la pelle, una brunoise di limone candito e la classica salsa suprême al fondo di cottura della carne. L’esempio di lusinghe altre, che offrono requie al palato, “perché tanta sofferenza fa desiderare la dolcezza: cerco piatti di casa”.
I dessert sono due. Prima Asparagi e cioccolato bianco, con i turioni appena sciroppati o in crema sulla sfoglia, più una lamina di cioccolato bianco a simulare il formaggio in superficie. Poi l’effetto “dentifricio” di un classico di Montemonaco, composto di spugna essiccata alla salvia, gelato di erbe e schiuma di mentuccia, abbinato all’anisetta Meletti per un’aromaticità ulteriore.
Tutte le fotografie sono di Samuela Conti
Indirizzo
Ristorante Il Tiglio In VitaViale Scarfiotti n 47 - 62017 Porto Recanati MC
Tel. +39 3920397238
La pagina facebook del ristorante