Nell’attesa del ristorante nipponico a sua firma, Gaggan Anand chiarisce con i fatti perché è in cima alla lista dei 50 Best Asia per quatro anni consecutivi, anche dopo l’annuncio della chiusura del suo mitico ristorante posizionato in una anonima via alle spalle del Lumphini Park a Bangkok.
La Storia
Bangkok è una città affascinante.
Racchiude in sé il più esuberante street food asiatico, che riempie ogni angolo di strada, anche nei quartieri meno popolari, e al tempo stesso mette sul piatto diversi indirizzi di altissimo profilo se si vuole frequentare il fine dining. Se vogliamo dirla tutta, l’aspetto più curioso è che solo in pochi casi la tradizione locale è riuscita a far breccia nel mondo dell’alta cucina, e i protagonisti spesso nemmeno sono nati e cresciuti nella capitale thailandese.
Bangkok ha tra le sue stelle più luminose (o se vogliamo tra i suoi più importanti rappresentanti nella 50 Best asiatica) un cuoco di origini indiane (Gaggan), due tedeschi (Suhring), un turco (Fatih Tutak di The House on Sathorn), e fino a qualche mese fa un australiano (David Thompson) ora rimpiazzato al Nahm nel ruolo di executive chef dalla thai cresciuta negli States, Pim Techamuanvivit. Per non parlare dei cuochi che la citta la frequentano o l’hanno frequentata nel recente passato, dagli olandesi Henk Savelberg e Marco Westmaas fino al portoghese Nelson Amorim del ristorante Il Fumo. A tenere alta la bandiera della cucina thai ci pensano l’Issaya di Ian Kittichai, l’emergente Paste della brava Bee Satongun, il ristorante Le Du (il cuoco chiamatelo pure Chef Tonn visto che il vero nome è ThiTid Tassanakajohn…) e la protagonista indiscussa dello street food d’autore con tanto di stella Michelin, l’occhialuta e simpaticissima settantaduenne Jay Fai dalla quale è impossibile non passare, fila permettendo, per una mitica omelette di granchio.
Gaggan nel panorama cittadino è la punta di diamante, il fuoriclasse che esce dai canoni della cucina classica, e non solo per la tipologia di percorso che si affronta a tavola. Certo, la grande differenza la si percepisce soprattutto se si ha la fortuna di vivere la maratona gastronomica di venticinque corse del suo Lab, al tavolo per soli tredici ospiti, nel soppalco esclusivo del ristorante, con la cucina a vista e come unico e indiscusso mattatore Gaggan stesso, che veste il ruolo di cuoco, showman, intrattenitore e, a volte, persino quello di improvvisato cantante o ballerino. D’altro canto, la musica rimane la sua prima vera passione (nella recente edizione di Ein Prosit si è anche cimentato alla batteria) ed è un aspetto questo che lo accomuna all’altro gigante della cucina attuale, Massimo Bottura.
L’esperienza del Lab rende ben chiara quale sia al giorno d’oggi la complessità del lavoro che deve affrontare un cuoco moderno. La forza espressiva dei piatti passa inevitabilmente attraverso uno storytelling che scava in profondità, che racconta vicende personali, storie familiari, percorsi di vita, le cadute nell’abisso e la celebrità, le passioni e la quotidianità. C’è tutto nel racconto quasi cronologico che si ascolta attentamente dalle vive parole di Gaggan affrontando i suoi piatti, perfino le ragioni che lo spingono a spostarsi in Giappone, una meta che è diventata la sua seconda casa e dove può seguire con maggior facilità il ritmo scandito delle stagioni per creare dei menù più vari. Ma per capire tutto questo è fondamentale la presenza del protagonista.
Gaggan (come Bottura e tanti altri) troneggia in sala e riesce ad ammaliare gli ospiti con storie che penetrano nel piatto, che giustificano le scelte operate, che danno un senso più grande alla semplice degustazione e che sanno raccontare la vita al di fuori della cucina. In poche parole, c’è una differenza notevole tra la pur sensazionale cena che si può degustare nelle sale tradizionali del ristorante e la mirabolante e straordinaria esperienza multisensoriale e narrativa del Lab. Qui i sensi vengono sopraffatti dai video proiettati su un grande schermo, dalla musica ad alto volume che accompagna alcuni piatti (vedi il famoso Lick It Up con la musica dell’omonima canzone dei Kiss) e capita anche di scherzare goliardicamente con una copia del Kamasutra che passa di mano in mano tra gli ospiti del grande tavolo. Come dire che dall’interprete chiuso in sé stesso, tra pentole e fornelli, che con ritrosia esce dal suo piccolo mondo, si è passati al cuoco maître à penser, che a tavola apre diversi link e regala stimoli intellettuali, e non, capaci di superare il piacere del gusto.
I Piatti
Venticinque tra snacks e portate non sono pochi, ma il tour Gaggan è tutt’altro che difficile da affrontare. Anche perché i piatti sono distribuiti su almeno 4 ore di percorso. Infatti, i turni del ristorante sono due, uno alle 17.30 e l’altro alle 21.30 e l’unica certezza è che il secondo turno non si conclude mai dopo solo quattro ore, ma spesso e volentieri si protrae nel corso della notte, soprattutto quando al tavolo capita di incrociare dei cuochi o dei giornalisti che partono con un fuoco incrociato di domande. Per intenderci, durante la nostra visita al tavolo c’erano il neotristellato spagnolo Dani Garcia e lo svizzero Andreas Caminada, oltre a un rappresentante della Gault-Millau elvetica.Molti dei piatti, va detto, sono ormai dei classici difficili da togliere dal menù, anche se qualche leggera modifica in corso d’opera capita di vederla, ma si tratta quasi sempre di dettagli impercettibili. Abbiamo detto del celebre Lick It Up, tra foie gras e mango da leccare direttamente sul piatto, ma basterebbe ricordare le piacevoli acidità della Yogurt Explosion o l’ottima sequenza spicy di cinque snack che caratterizza la prima parte della degustazione, dove si raccontano le origini indiane del gusto di Gaggan tra un Ghewar di formaggio, un Samosa al carbone, un biscotto alla melanzana con polvere di wasabi, il vaporoso riso fermentato con lenticchie e l’etereo ma deciso Chili Egg Nest, un friabile uovo di cioccolato bianco che cela all’interno un cuore di peperoncino senape e curry.
E i cinque piatti sui quali vengono serviti gli snack, che rimangono al tavolo, una volta conclusa la sequenza vengono riuniti in un puzzle molto facile da comporre e mostrano davanti a voi il profilo dell’India. Il menu poi prosegue con un certo brio, e qua e la si evidenziano i tributi alla cucina tecno emozionale e alla lezione di Adrià (che come per tanti altri ha cambiato la vita anche a Gaggan), tra gustosi bun di fungo a spezzare il ritmo, i finti asparagi bianchi ricoperti di cioccolato ma con un cuore freddo di cavoli, giusto poco prima del tributo thai al Som Tam, l’insalata piccante di papaya rivista nella forma di un mini cono gelato.
E si continua senza soste, attraverso i contrasti dolci/piccanti di cocco e wasabi della sfiziosa pallina di Puchka, cui fa seguito un breve uno/due nipponico. Che mette in primo piano prima la freschezza delle mele originarie dell’Hokkaido nell’Uni Green Apple e poi il Chutoro, un tributo al sushi dove la ventresca di tonno (con una crema di yuzu a sgrassare) viene appoggiata su una croccante meringa di dashi.
Poi si ripassa alle amate spezie, ma con le carne assoluta protagonista per la succulenta costoletta d’agnello al curry e chili che solleticherà i palati sensibili (e da mangiare rigorosamente con le mani, come buona parte del menu) prima della spettacolare presentazione tra fuochi, fiamme e musica degli AC/DC (“Highway To Hell” viene sparata a mille in sala) del Fish Paturi, ovvero un filetto di pesce nascosto in una foglia di banana con un tocco di lime. La cena ormai volge verso la parte dolce, ma c’è ancora tempo, prima, per la Death Star Porcini Finale con l’incrocio sublime di riso, zuppa di porcini e curry presentati in riproduzione della nave spaziale “Morte Nera” che riporta alla mente la Saga di Guerre Stellari proprio mentre in sottofondo riecheggia la celebre colonna sonora composta da John Williams.
I dessert conclusivi sono ben quattro e dai contenuti fortemente esotici: il Rose of Tonka Beans con rose alla barbabietola appoggiate su un biscotto speziato alla fava tonka, il Flower Power Lychee con un gelato deep fried presentato come fosse una crostatina (un dolce di Michalak, tra l’altro, ha lo stesso nome ma, va detto, è completamente diverso), il caleidoscopico cioccolatino Dark Side of The Moon ispirato dalla copertina del famoso disco dei Pink Floyd (e anche qui c’è anche la sottile unione tra la progressive indian cusine di Gaggan e il progressive rock con la musica di “Time”) e, infine, lo Yin & Yang di zafferano e pistacchio, un morso di gelato che rilascia sapidità e freschezza. La conclusione è il tributo alla sala, al cuoco, tra balli e danze del team che coinvolgono i presenti. Rimane come ricordo il doppio menu. La prima parte, un foglio trasparente con gli emoji che ricordano gli elementi essenziali di ognipiatto, viene consegnata al tavolo a inizio serata. Alla fine invece arriva la seconda parte, che si sovrappone al foglio con gli emoji e rivela i nomi di tutti e venticinque i piatti.
Indirizzo
Gaggan Restaurant68/1 Soi Langsuan - Ploenchit Road Lumpini Bangkok 10330
Mail reservation@eatatgaggan.com
Il sito web