Conta ormai fra i migliori indirizzi di Milano il ristorante Tokuyoshi, dove il pupillo di Massimo Bottura porta avanti il suo concetto di cucina contaminata. In convergenza parallela con la Francescana.
La Storia
Ha tutta l’aria di un anno magico, questo 2019, per Yoji Tokuyoshi.
Chef giapponese, già secondo di Massimo Bottura, che con saggezza orientale ha affrontato l’emancipazione dal maestro e l’apertura di un ristorante da patron, che oggi conta stabilmente fra i migliori di Milano. Non senza qualche difficoltà iniziale, in una piazza dove la concorrenza sicuramente non manca. Ci è riuscito precisando sempre più lo stile di una cucina, che ama definire “contaminata” anziché fusion, in quanto applica tecniche orientali a prodotti e gusti italiani, come già avveniva in tante preparazioni della Francescana (vedi il dashi di Parmigiano).
Anno magico perché stella a parte, dopo la paternità si profila imminente l’apertura di un secondo ristorante chiamato Alter Ego, a Tokyo: custodirà meno di 10 coperti e rovescerà con la coerenza di uno specchio la formula milanese. Quindi prodotti giapponesi e gesti italiani, compresa la stesura e la chiusura delle paste ripiene al bancone. Ma si parla anche di altre novità in arrivo e della ristrutturazione con ampliamento della casa madre di via San Calocero, completata da un bar nelle vetrine adiacenti.
È soprattutto la cucina, tuttavia, a mostrare nuovo smalto e spolvero: a volta gli stessi piatti degli esordi (o quasi) ma valorizzati ad unguem da una mano più esperta. Talvolta composizioni epurate, monocromi che celano sotto la coperta di un colore la similitudine fra due o tre ingredienti; talaltra gongorismi a briglia sciolta, dove le note si moltiplicano e si rincorrono. Colpisce, in particolare, la tensione verso una cucina totale, cannibalisticamente nutrita di cucine, che non può che ricordare gli svolgimenti della Francescana post-Tokuyoshi per una curiosa “omogenesi” degli stili: Oriente e Occidente, classicità e avanguardia, ricchezza e povertà, niente resta fuori da piatti in cui si intravvede l’alter ego, o forse l’ego alter, di Massimo Bottura.
Rispetto al passato sono cambiati anche i numeri: i cuochi in cucina e lungo il bancone, sul modello dei sushi bar, sono 11 anziché 5. Mentre qualche problema di salute ha indotto lo chef a poggiare il calice di vino. Ne è risultato un grande fervore negli abbinamenti, che oggi spaziano fra tre opzioni, anche miscelate: i vini, principalmente naturali, e i sakè della sommelier Debora Villa; gli elementi liquidi della ricetta, tazzine e bicchieri, che riprendono il concetto del consommé, applicandolo a capperi, ossobuco, zafferano eccetera; infine i tè, disponibili in 10 tipologie rarissime. Per esempio il pregiato tohobijin oolong, aromatico grazie all’azione dei vermi sulle foglie, infusionato a freddo alla maniera taiwanese per 36 ore, in modo da esaltare i profumi fini e ridurre il contenuto in catechine aggressive, per una maggiore gastronomicità e una tattilità setosa. Rappresenta una delle rare eccezioni al paniere italiano del ristorante, insieme al katsuobushi striato da tonnetto, ben diverso dal cinese.
I Piatti
I menu degustazione sono due: l’Italia incontra il Giappone e l’Omakase a sorpresa, rispettivamente a 110 e 140 euro, più 50 euro per i tè, 70 o 100 euro per i vini e i sakè. Si comincia con un pane a lievito madre da ciliegie e mele, preparato senza impastatura, amalgamando gli ingredienti e lasciando riposare il tutto per 6 ore prima dell’infornata; lo accompagna il burro nocciola addizionato di yogurt greco e mascarpone, che già preannuncia il gusto per la contaminazione oltre l’addizione gustativa.
Poi ad aprire lo stomaco è il consueto brodo preparato con tutti gli scarti vegetali della cucina: una specie di negativo fotografico del pasto, che dalle diverse stagioni estrae il rispettivo carico di umami. Segue la pizza “capricciosa” a base di okaki, snack giapponese di riso, guarnito riccamente con crema di funghi e pomodoro, Parmigiano e mortadella, chips di patate viola o carciofo fritto, burrata e fiori per un morso arioso, preciso e cangiante.
Si inizia a fare sul serio con il sashimi mari e monti di seppia e lardo in salsa ceviche, monocromo abbagliante, bianco su bianco su bianco, fondato su similitudini e dissimilitudini, come la poesia. Perché la cecità apre altri occhi. Sono i candori immacolati del cefalopode e del lardo di Colonnata, paradossalmente amici nella testura grazie alla diversa grassezza. Viene spazzata via dalla salsa ceviche a base di limone, lime, olio, cipolla, sedano e polpa di pesce crudo frullata. Più un bicchierino di brodo di seppia (o tentacoli di calamaro, secondo la stagione), che struttura mediante sensazioni profonde, tostate e sapide. “Sono partito dall’idea di un sashimi diverso, ma la salsa ai miei occhi sporcava il patto. Quindi il monocromo, con il brodo a esaltare il gusto del mollusco attraverso la cottura e l’uso del fegato”
Poi l’icona di Tokuyoshi: il Gyotaku, che riprende una tecnica pittorica giapponese, nata dall’usanza dei pescatori di ricavare l’impronta delle prede migliori. L’inchiostro in questo caso è nero di seppia, per una ricetta di triglia o sgombro, secondo le disponibilità del mercato, che mette a confronto la cosa e il suo segno. I pesci sono aperti, sfilettati, farciti di una mousse à l’ancienne di capesante, gamberi rossi e agrumi al plancton, profumati con scorza di arancia, limone e polvere di finocchietto dentro una panatura al carbone vegetale. Bianco e nero per un’estetica impattante ed elusiva, che cela un gusto italiano ma anche tecniche della cucina d’antan, alla Bocuse, in una rapsodia che sa ancora di virtuosistica cucina totale, fuori da ogni coordinata spazio-temporale. Nel bicchierino, in accompagnamento, un’insalata liquida di centrifugato di pomodori verdi, olive verdi, arancia, limone, zenzero e finocchietto.
I tajarin sono nati dalla similitudine dei gesti, con cui si affettano tartufi bianchi e katsuobushi. Quindi una generosa mantecatura con burro nocciola all’alga kombu, per spingere l’umami, e in sala la coreografia inconfondibile per ogni gourmet italiano. Ma in bocca la metamorfosi si compie in un’altra icona: una carbonara sbagliata, con il tonnetto striato e affumicato per il bacon. In abbinamento, perfetto, il tè rosso tohobijin, per il tostato sul fumé e la tannicità frusciante sulla grassezza.
Il secondo è l’incastro a sorpresa di due piatti: il civet di anatra e le lumache alla bourguignonne, secondo uno schema più che mari e monti, terra e aria. Quindi, sul piatto dipinto appositamente da un’artista italiana, il petto di anatra francese e le lumache, sormontate da elementi verdi per la mineralità: asparagi di mare, cavolo kale e nasturzio. A operare la fusione sono tre salse: il classico burro con aglio e prezzemolo, il fondo al pepe Sancho e la salsa civet con fegato, spezie e vino rosso. Cucina totale e rimandi classicisti.
A fare da passerella col dolce è quindi il predessert in forma di ghiacciolo, sul modello dei piatti kaiseki che evocano una stagione in un’altra, senza deroghe alla stagionalità. Una nostalgia estiva composta di polpa ghiacciata, cosparsa prima di Aceto Balsamico al burro di cacao e semi di zucca, poi di riduzione di birra giapponese e amaretti. Fra dolce e amaro.
Scherza infine sul tormentone mont blanc il paesaggio commestibile ispirato al Monte Rosa, presenza familiare a Milano. Si tratta di una stratificazione di crema di castagne, gelato di cachi, crema di mele cotogne, biscotto ai porcini e spugna all’idromele, sotto le cialde di meringa alla barbabietola e al caffè e la spruzzata di panna ed erbe aromatiche per la vegetazione e la neve. In abbinamento un sakè ossidato che sembra quasi uno Sherry, per riprendere le note di funghi e il tostato.
Indirizzo
Ristorante TokuyoshiVia San Calocero 3 - 20123 Milano
Tel +39 02 84254626
info@ristorantetokuyoshi.com
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