Una luna di miele insolita: dieci ristoranti in quattordici giorni. Non dieci ristoranti qualsiasi, i dieci ristoranti olimpionici d’Italia, i 3 stelle Michelin.
La Notizia
Dieci ristoranti in quattordici giorni. Non dieci ristoranti qualsiasi, i dieci ristoranti olimpionici d’Italia, i 3 stelle Michelin. Tanto è il sogno che ha coronato una giovane coppia che ha viaggiato lungo tutto lo stivale in luna di miele. Fabio e Valeria, due italiani residenti in Spagna, appassionati di buon cibo, alle consuete mete sperdute negli angoli più remoti del mondo, ai safari e ai resort, alle scalate himalayane e alle spiagge dorate degli atolli oceanici, hanno preferito volare in Italia e noleggiare un’auto per raggiungere le vette più alte della nostra ristorazione.Un volo da Malaga a Roma, primo appuntamento alla Pergola di Beck, e via in auto fino a Senigallia, tappa a pranzo da Uliassi con il degustazione Lab 2019, seguito da un breve soggiorno sulla riviera romagnola tra spiagge e piadine, prima di incontrare Bottura nel nuovissimo resort Casa Maria Luigia, in una cena all’insegna dei grandi classici della Francescana. Colazione con Bottura a ricordare i mangiari mattutini della nonna, e visita all’Acetaia Giusti. Pranzo a Firenze all’Enoteca Pinchiorri con immancabile visita in cantina, un tour tra le bellezze artistiche e via di nuovo in macchina. Dopo una sosta bolognese tra piazze e tortellini in brodo, e una visita ad alcuni produttori di salumi lungo la strada per Parma, li accoglie l’Inkiostro di Terry Giacomello, ché Fabio è un grande stimatore della sua creatività, e il viaggio prosegue con soste intermedie tra caseifici e cantine di vini fino a Rubano, per una cena con bacio al Le Calandre degli Alajmo.
In una rocambola stellare, il pranzo del giorno dopo è fissato dal Pescatore, accolti tra la cordialità e l’eleganza dei Santini. L’intermezzo nella pizzeria I tre Tigli di Simone Padoan è l’input che li porta quindi al St. Hubertus da Norbert Niederkofler, immersi nei sapori altoatesini, in una sosta di due giorni, prima di scendere di nuovo a valle, passando per Brusaporto da Vittorio accolti dai Cerea, e quindi in direzione Piemonte.
Piazza Duomo è l’ultima tappa del viaggio, cui è mancato solo Il Reale di Niko Romito perché già visitato qualche mese prima, per un totale di quasi 6.000 chilometri percorsi tra auto e aereo, e 25 tappe tra stelle ed eccellenze enogastronomiche e artistiche.
Nel congratularci e augurare loro una vita felice insieme, ci viene al tempo stesso spontanea una riflessione su un fenomeno che si fa sempre più spazio in questo ambito, e su cui urge soffermarsi.
Si tratta certamente di un fenomeno già codificato all’estero – senza volerci lamentare che all’estero sono più avanti di noi, per carità – e per cui esiste un’espressione naturalmente inglese che spiega persino Wikipedia. Destination restaurant è la locuzione che va a circoscrivere quei “locali che sono particolarmente attraenti anche al di fuori della propria comunità” (citiamo Wikipedia) e questo non è proprio una novità, visto che l’azienda di pneumatici Michelin nel 1920 ha creato una guida in cui segnalare ristoranti e hotel per gli automobilisti. In un secolo molte cose sono cambiate, certo, e il fascino della Michelin è più granitico che mai, ma il modo di viaggiare è cambiato. E anche le destinazioni stanno cambiando. Le produzioni televisive e cinematografiche stanno investendo molto nel settore dei documentari a tema cibo, a raccontarci di usanze sconosciute, davvero sperdute come atolli del gusto in luoghi spesso difficili da raggiungere coi mezzi più comodi. E sicuramente Netflix ha portato alla ribalta con incredibile forza storie di chef e ristoranti che, per quanto già note gli esperti del settore, hanno raggiunto fasce di spettatori più ampie. Al punto che sono sempre più frequenti coloro che decidono di spostarsi e muoversi per andare in un determinato “ristorante”. Clamoroso è stato il caso di Faviken, di cui resta memoria non tanto per l’esperienza a tavola – sicuramente strabiliante – quanto per l’incredibile viaggio in slitta a diretto contatto con la natura.
Insomma, se l’antropologo Claude Lévi-Strauss un secolo fa decretava la fine dei viaggi di scoperta delle terre emerse, abbiamo ancora molto da scoprire ed esperire, ed è forse grazie a certa ristorazione che è stata finalmente codificata e riconosciuta come promotrice di un territorio e quindi di una cultura.
Il casus belli dei nostri giovani sposi ci sembra ottimo per poter riflettere in maniera propositiva sulla nostra realtà italiana, in cui il mangiare bene si associa già proverbialmente alle bellezze storico-artistiche. Come a dire, si va a visitare il Colosseo e poi si mangia una buona carbonara. In realtà c’è un segmento di turismo crescente che mette al primo posto la carbonara e la condisce poi con il Colosseo, tanto per riprendere l’esempio precedente. Questo per spiegare che una parte della ristorazione esercita un appeal importante su una fetta di turismo che è sempre più disposto a muoversi per scoprire i nostri sapori, che hanno quasi la stessa dignità dell’arte, una dignità sul piano culturale, e se alcuni ancora faticano a crederci, c’è anche chi ne sta facendo materia di studio accademico, sia sul piano umanistico che economico.
Il nostro auspicio è che possiamo avere sempre più persone che vengano a visitare e a godere delle nostre tavole, e che quindi ci sia una presa di coscienza definitiva da parte di questo settore circa il ruolo che può rivestire nella crescita del Bel Paese. Come nel caso della Scandinavia, che negli anni ’90 ha investito moltissimo creando strutture ricettive e incentivando la ristorazione dando luogo a quella celebre ondata nordica che ancora si riverbera in tante cucine del mondo, auspichiamo altresì la presa di coscienza delle nostre istituzioni, che possano supportare l’impegno e i sogni di chi ha intrapreso questo percorso di valorizzazione del nostro territorio che vanta risorse infinite di bontà e di cui tanti ristoratori si stanno facendo portavoce.