Dagli anni ‘60 un indirizzo di riferimento per il vino a Roma, il ristorante Achilli al Parlamento dal 2014 ha intrapreso una svolta dirompente con la cucina di Massimo Viglietti.
La Storia
Non tutti credono al Caso ma, talvolta, è davvero difficile ignorare la sequenza di coincidenze che portano al risultato finale. Prendete ad esempio l’Enoteca Achilli, dagli anni ‘60 un indirizzo di riferimento per il vino a Roma grazie al lavoro attento e appassionato di Gianfranco Achilli e della moglie Bianca, ma dai più chiamata Franca. Grazie a lui, il negozio in via dei Prefetti – a due passi da Montecitorio – e la stupefacente cantina sotterranea che si snoda sotto i palazzi limitrofi tra antichi archi, ancora oggi custodiscono un vero e proprio tesoro enologico con migliaia di etichette rarissime e bottiglie d’annata.Probabilmente, il locale sarebbe ancora oggi soprattutto un’enoteca dove la mescita pressoché inesauribile è affiancata dalle ormai mitiche tartine, un’eccellente selezione di salumi e formaggi di qualità e qualche piatto da bistrot. Invece, poco prima del Natale del 1980 vi si affaccia per la prima volta Daniele Tagliaferri, gioielliere con la passione per la buona cucina abituato a girare per grandi ristoranti dovunque lo portasse il suo lavoro. In centro per compere, vede un fattorino consegnare un cesto natalizio decisamente fuori dall’ordinario e si incuriosisce, mettendosi sulle tracce della bottega da cui proviene.
Entrando da Achilli, sono due cose a colpirlo: la quantità e varietà di bottiglie agli scaffali e Cinzia, la figlia di Gianfranco, che diventerà sua moglie. Insieme, mettendo a frutto la sala sul retro del negozio, lo trasformano in un ristorante di classe contraddistinto da un’atmosfera raffinata e una cucina d’autore, inizialmente entrambe piuttosto classiche. Nel frattempo Daniele approfondisce le sue conoscenze enologiche e diventa un grande esperto di Champagne; e ad affiancarli arriva anche il figlio Alessio, oggi alla guida della nuova avventura Achilli Caffè a Prati che, dal luglio 2019, ha fatto rivivere la lunga tradizione del locale che era stato in origine Giolitti e poi Settembrini.
La seconda svolta di Achilli, forse ancor più dirompente, arriva nel 2014 insieme a Massimo Viglietti. Lo chef ligure, che da giovanissimo aveva preso due stelle al Palma, lo storico ristorante di famiglia ad Alassio (per poi perderne una nel 2002 e iniziare a mettersi in discussione, andando a lavorare dai grandi di Francia), aveva deciso di lasciare la Riviera di Ponente per trovare nuovi stimoli.
L’incontro con Tagliaferri è quasi fortuito ma lascia il segno in entrambi e apre le porte a una collaborazione ormai consolidata, sui cui pochi avrebbero scommesso agli inizi. Cosa c’entra questo cuoco cinquantenne dal carattere spigoloso e l’apparenza poco rassicurante, a metà tra un punk e un camallo tra la cresta bionda, l’orecchino e i tatuaggi, con l’atmosfera rarefatta e fin troppo impeccabile di Achilli? Ma il patron sa andare oltre le apparenze; e anche buona parte del pubblico romano e della critica che apprezza la verve creativa e “anarchica” dello chef e l’assenza di reverenzialità verso mode e tendenze. Così, nel 2016 arriva la prima stella e mese dopo mese le creazioni di Viglietti si susseguono nei menu del ristorante proponendo sempre qualcosa di nuovo.
Il Ristorante
La vecchia insegna delle origini ricorda il nome del fondatore di questa “galleria di ricercatezze”, anticipata da un gradevole dehors verandato e accompagnata da un’altra insegna tentatrice che pubblicizza il bel bancone in legno cui fermarsi per degustazioni di vini e Champagne. Le vetrine esterne e gli scaffali della sala d’ingresso sono letteralmente colmi di bottiglie – anche di distillati di ogni genere e provenienza – e leccornie varie, tra nomi noti e chicche dell’artigianato gastronomico italiano dolce e salato.E una rossa Berkel scintillante invita a fermarsi per accompagnare un calice con qualche assaggio di salumi affettati al momento. Insomma, tutto rimanda all’atmosfera quasi fiabesca delle botteghe d’antan, dove il tempo sembra scorrere più lentamente che nel mondo al di fuori.
Sul retro però, già s’intravedono le altre due sale che ospitano il ristorante vero e proprio, dando l’impressione di addentrarsi sempre di più in un regno straniante e senza punti di riferimento: boiserie, specchi, stucchi e lampadari riportano all’allure di altri tempi, mentre dettagli di design contemporaneo – dai divanetti in pelle rossa ai tavoli senza tovagliato, decorati da molle e pistoni colorati che rimandano alla passione dello chef per le moto– catapultano nella modernità più pura.
I Piatti
Apertamente ermetica, sfuggente a consuetudini e classificazioni, irriverente ma mai inutilmente provocatoria, dichiaratamente pensata per molti ma non per tutti. Così si potrebbe cercare di definire – comunque vanamente – la cucina di Massimo Viglietti. In un’epoca in cui molti colleghi cercano ossessivamente la pulizia dei sapori, la nitidezza delle sfumature delle singole materie prime da comporre in insiemi armonici pur se giocati tra contrasti, lui mette nei piatti partiture musicali (la metafora non è casuale, lo chef è un grande appassionato di musica rock e la colonna sonora che accompagna la cena è un vero piacere per gli estimatori del genere) che pensano soprattutto al risultato complessivo ma senza temere possibili dissonanze.Eppure il prologo – con il “cestino” del pane scomposto in diversi assaggi tra cui dei deliziosi croissant e la focaccia ligure, e i gamberi fritti super croccanti e asciutti da mangiare con le mani senza lasciare nulla nel piatto – sembrerebbe andare in tutt’altra direzione.
Invece, poi. Al di là dei nomi sibillini dei percorsi di degustazione accompagnati da dichiarazioni d’intenti ancor più apertamente imperscrutabili – Aux Amis: “Aspettare il tempo... Accoglierlo e stringergli la mano... Lasciarsi ai ricordi e aspettare”; e S.P.Q.R.: “Sampietrini a trasmettere vibrazioni di un tempo che cambia...”, con omaggi poco canonici alla romanità – anche il menu alla carta (tra cui, volendo, poter scegliere tra diverse formule “libere” da 90 a 140 euro) riporta una dichiarazione d’intenti incontrovertibile: “Capire... Comprendere... Forse no”.
La verità è che per godersi al meglio una serata da Achilli bisogna sedersi al tavolo liberi da aspettative; ma anche dalla pretesa di decifrare tutte le corde di piatti in cui la tecnica (solo apparentemente messa in secondo piano) è al servizio dell’istinto e in cui anche l’ordine d’uscita delle portate, non sempre canonico, è studiato. Con piatti che raramente risultano “perfetti” – secondo criteri classici – ma che quasi sempre offrono spunti di riflessione e ragionamento.
Per esempio: i porcini spadellati proposti con acciughe del Cantabrico, robiola e mela verde potrebbero sembrare decisamente cacofonici ma l’inattesa nota fresca, agrumata e quasi anestetizzante dei “boccioli” verdi di Asakura sansho torna a dare un senso al tutto.
L’insalata di baccalà, arance, bottarga e rabarbaro punta sulla rincorsa tra freschezza, acidità e amaro, pur se destinate a non incontrarsi mai.
L’uovo strapazzato con i ricci, servito nel bicchiere di vetro a mettere in risalto una monocromia non invitantissima, gioca non solo con i rimandi tra “uovo” e “uova” ma vuole essere un omaggio ai sapori intensi e viscerali del meridione e si rivela un insieme tanto improbabile quanto centrato, invitando a non lasciarne nemmeno una goccia.
La scaloppa di foie gras con tartare di gamberi, spuma di lampone e riduzione di Coca Cola sembrerebbe fatta apposta per far alzare il sopracciglio ai puristi; eppure la famosa bevanda gasata non serve solo a fare scalpore: riducendola, Viglietti ne mette in evidenza le note caramellate ma anche amare che fanno da contraltare alla grassezza diversa e complementare del fegato e dei crostacei, con l’acidità dei frutti di bosco a resettare il palato.
La mineralità delle biete e la dolcezza della passata di pere che accompagnano il rombo spadellato riequilibrano la rotondità opulenta del midollo in forma liquida contenuto nella pipetta con cui infondere il pesce. Un piatto tutto sommato semplice e immediato che serve ad aprire la strada a quello successivo, incentrato su un gioco di ambiguità sensoriale; quello tra la capasanta ben soda e arrostita alla perfezione accompagnata dalla guancia di manzo sfilacciata e dalla fresca tenacia della mozzarella di bufala, avvolte da un’intensa bisque di gamberi che a prima vista potrebbe sembrare salsa, mescolando le carte tra consistenze e sapori.
Ma c’è spazio anche per l’omaggio alla Liguria e alla memoria, con i ravioli di lumache – un sottile involucro di pasta acqua e farina con vino e olio – serviti in un brodo di funghi dal sapore deciso e terragno ma molto elegante, e accompagnati dalle erbe selvatiche fresche e dalla nota acidula del lievito grattugiato.
Il capitolo dessert – introdotto da un barattolino all’apparenza vuoto da cui sniffare l’essenza di zenzero che ha il compito di pulire non il palato o lo stomaco ma i recettori nasali – è quasi un circo da Grand Guignol, con proposte dissacranti come Robiola, cioccolato al pepe e seppia: un connubio che non ricerca la confortevolezza del dolce ma gioca sulle assonanze gustative e di consistenze della seppia con il cocco o il marshmallow, accompagnata da pistacchi, cioccolato e olive candite.
“La mia è una cucina di sfumature, si capisce alla fine del percorso e richiede una certa attenzione”, spiega Viglietti; senza arroganza ma con la consapevolezza di proporre qualcosa di ostico a molti, intrigante per tanti altri.
Fotografie di Stefano Delìa per BLANK Agency
Indirizzo
Achilli al ParlamentoVia Prefetti, 15 - 00186 , Roma
Tel. +39 06.86761422
Il sito web