Celebrare la bontà, la bellezza e l’armonia dei piatti dell’Antica Osteria Cera costituisce un atto (per altro dovuto) di ridondanza. Perché si sa che qui a Lughetto di Campagna Lupia si mangia il pesce come in pochi altri ristoranti in Italia.
La storia
Celebrare la bontà, la bellezza e l’armonia dei piatti dell’Antica Osteria Cera costituisce un atto (per altro dovuto) di ridondanza. Perché si sa che qui a Lughetto di Campagna Lupia si mangia il pesce come in pochi altri ristoranti in Italia, si sa che le due stelle della guida Michelin brillano di una luce nitida e si sa che la cantina è all’altezza della cucina. Ecco il motivo per cui, dopo un pranzo tra i migliori di quest’anno complicato, la mia chiacchierata con Lionello Cera, uomo che colpisce immediatamente per la sua enorme determinazione, ha sì toccato il tema della cucina ma in modo marginale rispetto allo stato d’animo o meglio gli stati d’animo che attorno a essa e al mondo di uno chef ruotano.Soprattutto in un momento come quello che stiamo vivendo, condizionato da una evidente, difficile comprensione per quel che riguarda le dinamiche della vita di un grande ristorante: “Non è che nella sostanza di quel che accade siano cambiate per noi tante cose: da sempre due volte al giorno la cucina viene rovesciata, dato che la pulizia è fondamentale. Poi, lo vedi a che distanza sono i tavoli in sala. Per questo non ho capito perché ci abbiano assimilato tutti, rendendoci uguali, senza distinguere. Perché sanno benissimo come si lavora qui, così come al nostro bistrot di Dolo. Grazie a Dio a pranzo lavoriamo, ma non possiamo dimenticare che siamo una struttura da venticinque persone. Durante il lockdown per me entrare qui era una vera e propria agonia: noi della famiglia venivamo tutti i giorni e facevamo qualche lavoretto per organizzare poi il delivery a fine settimana, una tristezza infinita vedere la sala smontata (mentre lo dice sospira e solleva lo sguardo verso l’alto, n.d.r.). Adesso almeno posi lo sguardo sui tavoli preparati, osservi i ragazzi che sistemano la sala al mattino, magari mettiamo a sedere venti persone, ma lo spirito è diverso. Non è facile, no, ma si deve andare in scena comunque.”
E andare in scena, per uno con la sana, caparbia pignoleria di Lionello Cera, significa entrare nel dettaglio dei dettagli. “Il fatto di essere obbligato a restare a casa durante la prima chiusura mi ha fatto crescere e riflettere. A uno come me manca tantissimo: stamattina come sempre mi sono alzato alle sei, sono arrivato qui alle sette meno un quarto e ci resterò fino a sera. Lavoro sette su sette, tutti i santi giorni. Poi vado a casa, mangio qualcosa e vado a letto. Quindi quel periodo mi è servito per studiare e rivedere tutti gli appunti che mi ero preso nel corso degli anni e prendo ancora in continuazione. Anche ascoltando i clienti, come poco fa quando mi hanno sottolineato la particolare sapidità di un piatto. È un risotto che spacca, secondo me. Lo faccio con un brodo di canocchie, mantecato con una riduzione di canocchie all’assenzio, poi origano e capperi che secchiamo noi e un’altra riduzione di calamaretti, con quest’acqua pazza sopra”.
Foto di Tobia Berti
I piatti
Ho assistito da lontano alla conversazione tra lo chef e gli ospiti, rendendomi conto di quanto importante sia per molta gente la presenza del cuoco al tavolo, terminata l’esperienza: allo stesso modo si conferma quanto ci sia da sopportare da parte di un professionista nel bene ma anche nel male, perché questa è un’epoca è necessario esprimersi sul piatto anziché goderselo. “Sì, ci ha fatto bene” - continua Lionello – “Ci siamo fermati davanti a un muro e ci abbiamo letto qualcosa che ci ha fatto crescere. Così adesso ho una gran voglia di fare. Ogni mattina presto ho un paio d’ore di pace e tranquillità durante le quali non c’è nessuno e io sto lì a pensare a come rivedere un piatto, oppure come oggi il nuovo menu del bistrot”. Il momento per la ristorazione in generale è comunque critico: “Io e i ragazzi stiamo cercando di essere compatti e quadrati: l’ospite dev’essere al centro delle nostre attenzioni, dobbiamo seguirlo passo dopo passo e dare ancora più del massimo, sempre di più.”E a proposito dei ragazzi, come li chiama lui, Lionello ha la fortuna di avere personale stabile praticamente da sempre: “Il mio secondo è con me da ventotto anni, in pasticceria sono con me da otto o dieci, Giulia che ha preso il posto di Simonetta (ora al bistrot) in sala è qui da quindici anni. Li vedo tutti un po’ dispiaciuti, perché anche loro come me sono convinti che il ristorante sia come un teatro, si dovrebbe andare in scena due volte al giorno e adesso invece manca lo spettacolo principale, siamo spaccati a metà e manca sempre qualcosa, perché nel tardo pomeriggio se ne devono andare a casa, mogi. Poi arriva il pranzo del venerdì e il fine settimana in cui si lavora molto e l’entusiasmo torna a salire. Speriamo che tutto questo rimanga solo un brutto ricordo.”
E poi c’è il tema della clientela abituale e del loro reagire a questa situazione: “Ci siamo subito messi in moto con il delivery e a marzo-aprile, quando li vedevo, sembrava quasi fossero in vacanza, chiamavano per qualche piatto e una buona bottiglia, adesso invece li percepisco molto tirati. Sono preoccupati, per le loro famiglie e per le loro aziende (qui arrivano soprattutto molti imprenditori, n.d.r.) e in generale perché questa cosa c’è, non se ne va e si sente sempre più da vicino.” Anche i fornitori, mi spiega Lionello, non se la passano bene, con gran parte dei locali chiusi o a ranghi molto ridotti. Si tratta di una questione a effetto domino che a lungo andare inciderà in modo determinante sul futuro di un comparto vitale per l’economia di questo paese.
Che cosa accadrà? Lionello dice: “Negli ultimi anni c’è stata molta confusione, perché è stato un periodo in cui tutti volevano aprire e fare; spesso mi confronto con dei giovani che sognano di dar vita a un posto loro dopo soli sei mesi, passati magari anche con un bravo chef. Mi chiedono un consiglio e prima di tutto penso: siamo in questa burrasca ora, ma facciamo pure finta che non esista. E poi ti trovi di fronte a un ragazzo di poco più di vent’anni. Ti rendi conto che devi farti almeno sei, otto anni di esperienza? Ma non di quelle di tre mesi da Cera, a La Peca, a Le Calandre o da un grande all’estero quale sia! Esperienza vuol dire due anni, due anni, due anni, di quelle toste, giuste. Ne abbiamo parlato quando è venuto qui Santi Santamaria e ha voluto conoscermi perché ha detto di aver mangiato del pescato eccezionale, del resto si sa che siamo un ristorante di materia. E anche lui ha ribadito che i ragazzi devono capire che bisogna starci due anni almeno in una cucina. Ti ritrovi con curriculum con un mese qua e uno di là, sei ristoranti in sei mesi. La cucina è sacrificio, lavori dalle sedici alle diciotto ore, ci sono troppe persone senza cultura né sensibilità che vogliono tutto e subito. Forse sono davvero fortunato ad avere con me uomini e donne con i quali c’è sintonia, perché alle volte mi vien male a pensare alle ore che passano qui dentro. Ma se vogliamo fare le cose per bene dobbiamo sentircelo dentro, altrimenti non ha senso.” Come invece ha senso il rapporto viscerale che un cuoco come lui ha con il suo mondo. Ed è probabilmente grazie a uomini come lui che questo strano universo di pentole, padelle e piatti sublimi, pur tra mille difficoltà, terrà alta la bandiera della qualità a tutti i costi.
Foto di Tobia Berti
Indirizzo
Antica Osteria CeraVia Marghera, 24, 30010 Lughetto VE
Tel. +39 041 518 5009
Il sito web