È stato un maremoto vero e proprio, quello che ha scatenato sulla cucina mondiale Josh Niland, trentaduenne chef australiano in forze dal 2016 al Saint Peter di Sidney, ristorantino da 34 coperti con annessa pescheria, The Fish Butchery.
La Storia
È stato un maremoto vero e proprio, quello che ha scatenato sulla cucina mondiale Josh Niland, trentaduenne chef australiano in forze dal 2016 al Saint Peter di Sidney, ristorantino da 34 coperti con annessa pescheria, The Fish Butchery. Perché il concetto è quello di spingersi sul pesce fin dove si è arrivati con la carne, in ogni possibile accezione. La sua opera seminale, The Whole Fish Cookbook, ha ribaltato come uno tsunami ogni cognizione in materia, costringendo a una riflessione i più grandi cuochi del mondo, da Heston Blumenthal a René Redzepi.Niland approccia il pesce come un chirurgo, le mani guantate di nero che si destreggiano fra 13 coltelli. Perché la sua cucina è innanzitutto una forma di anatomia, volta a scriminare scientificamente ogni tessuto per adibirlo al trattamento ottimale. Al Saint Peter, rivendica, non si ammannisce il 43% dell’animale, come vuole la media britannica, su cui pesa lo scarto di lische, teste e frattaglie. Si arriva al 90%, a forza di nastri di squame argentate e collane di viscere. E non è una cifra da poco, se si considera quanto lo scarto zero e la sostenibilità siano destinati a pesare sempre più nel borsino degli chef. “Perché se un animale viene ucciso, se un pesce viene ucciso, devi impegnarti a usarlo interamente”, dice.
A un simile concetto di sacralità della materia, Niland è probabilmente approdato scavando nelle profondità della sua biografia. Se è vero che a 8 anni la madre intravvide un bernoccolo sotto la sua cassa toracica e così lo salvò da un aggressivo tumore di Wilms. Al termine di cicli di radioterapia e chemioterapia, seguiti all’asportazione di un rene, si disse: “Bene, tutto può andare storto in fretta, quindi se voglio qualcosa, andrò a prendermelo”. Era una famiglia di piccola borghesia basata a Maitland, a due ore da Sidney, il padre contabile, la madre che gli dava una mano. Senza addentellati nel food e men che meno nel pesce. L’unico ricordo d’infanzia in materia è la sorella che quasi si strozzava a causa di una lisca. “Ma il cibo è diventato un conforto quando ero malato, una coccola di cui non vedevo l’ora. Iniziai a innamorarmi della cucina verso i 13-14 anni, quando ebbi l’opportunità di fare la spesa con mia madre, cucinare un pasto per i miei familiari e vedere come se lo godevano. Amavo la generosità che è nel produrre cibo”. Abbandonata la scuola prima possibile, eccolo farsi le ossa nei ristoranti di Sidney e nel laboratorio del Fat Duck per forgiare la sua cucina personale. L’approccio molecolare dello chef londinese, in particolare, uso a mettere qualsiasi certezza in discussione, lo ha influenzato in modo decisivo. “Nessuna domanda è troppo stupida lì”. Ne è derivato anche lo spirito ludico di preparazioni mimetiche e scanzonate, come l’aringa affumicata alla confettura di barbabietola, dalle sembianze di doughnut alla marmellata.
Ma è soprattutto sotto il profilo tecnico che Niland è pressoché unanimemente considerato un game changer. Il pesce nella sua visione è innanzitutto nemico dell’acqua, che moltiplica la carica batterica e accelera la deperibilità. Niente di più sbagliato che adagiare cadaveri su sepolcri di ghiaccio e spruzzarli ininterrottamente affinché sembrino appena usciti dall’acqua. È questo il presupposto perfetto per rovinare la materia, favorendo una proliferazione che sprigiona odori sgradevoli e ostacola la maturazione. Il focus della ricerca si è via via concentrato sul fish aging, la frollatura del pesce, pulito maniacalmente e mantenuto a bassa temperatura con un tasso di umidità controllato, in modo da centrare il “punto di dolcezza”, la massima concentrazione ed esaltazione del gusto. La sperimentazione avanza sulle specie che meglio si prestano (sgombro, tonno, pesce spada) e sull’intervallo temporale ideale, che non può superare i 20 giorni. Anche se qualcuno puntualizza che in certe parti del mondo, dalla Sardegna al Giappone, e su determinati esemplari di grandi dimensioni si è sempre fatto: in questo modo il pesce, che si è contratto al momento della cattura, risulta asciutto fuori e succoso dentro, non si arriccia, non si indurisce e la pelle viene valorizzata; il gusto e la testura ne guadagnano in finezza ed eleganza. La ventresca di tonno, in particolare, secondo i giapponesi si mangia fresca o dopo una maturazione in carta di riso, per tirare fuori l’untuosità. Tutte lavorazioni che hanno un costo, in termini di tempo, spazio, perdita di peso.
Prosegue inoltre la ricerca sull’uso del quinto quarto di mare. “Devo ancora padroneggiare la cistifellea”, riconosce Niland. Ma gli occhi sono disidratati e fritti, come le squame, servite anche caramellate; il fegato diventa un paté; il cuore e la milza sono grigliati o affumicati; la lingua è trattata come le kokotxas di baccalà; lo stomaco si prepara al vapore.
Il divertimento sta anche nel traslare virtuosisticamente sul pesce le più disparate ricette “familiari”: vedi il merlano alla Kiev, da cui zampilla burro all’aglio, o il “turducken” (tradizionale preparazione statunitense, con diversi animali da cortile uno dentro l’altro), approntato racchiudendo un filetto di tonno dentro un merluzzo, rivestito a sua volta di trota salmonata. E ancora il sanguinaccio di pesce, bacon, guanciale e pastrami di mare; perfino il biscotto di caramello e cioccolato al grasso di pesce.
Il sito web del Saint Peter
Fonte: theguardian.com