Tradizione e ricercatezza Alta cucina Chef

Più carichi di tanti giovani stanchi. “Non voglio fermarmi, mi diverto ancora”: Angelo e Luisa Valazza storia di una leggenda tutta italiana

di:
Alessandra Meldolesi
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Settant’anni sul passaporto, quarant’anni all’anagrafe della cucina. Eppure Angelo e Luisa Valazza non hanno perso l’entusiasmo delle prime volte: a dispetto della pandemia, disponendo di camere aprono le porte del Sorriso a chi prenota.

La Storia

Settant’anni sul passaporto, quarant’anni all’anagrafe della cucina. Eppure Angelo e Luisa Valazza non hanno perso l’entusiasmo delle prime volte: a dispetto della pandemia, disponendo di camere aprono le porte del Sorriso a chi prenota, rifacendo la linea da zero anche per una coppia di habitué. 

Più carichi di tanti giovani stanchi. Un’energia che dà la scossa attraverso il filo del telefono. “Non voglio fermarmi, perché questo lavoro mi diverte ancora”, squilla la voce di Luisa. “Amo prendere in mano il prodotto, la sensazione tattile, olfattiva, gustativa. A volte sono stanca, non vorrei lavorare, poi entro in cucina e scatta la magia, tanto che non vorrei più uscire. Ed è un fare che diventa arte, quello che ho sempre desiderato, perché da ragazzina sognavo di frequentare il liceo artistico”.


Invece Luisa ha studiato lettere, laureandosi con una tesi sulla fede in Manzoni, programmando una carriera nella scuola e iniziando a fare qualche supplenza qua e là. Finché l’amore non ha sovvertito i suoi piani, sposandola a un mondo che neppure sospettava. “La mia famiglia non aveva niente a che fare con la ristorazione, certo mia mamma era brava, faceva la maestra ma in casa cucinava proprio bene, piatti leggeri e digeribili. Poi è successo che ho conosciuto mio marito, che aveva già fatto un bel pezzo di carriera. Io stavo rientrando da una gita sul lago con un’amica, a prendere il sole in spiaggia. Ci siamo fermate in questo locale a Borgomanero, di cui avevo sentito parlare da qualche conoscente. Ho chiesto un toast normale, invece me l’ha servito farcito. Ma era favoloso. Abbiamo iniziato a parlare del più e del meno. ‘Ma tu giochi a tennis?’ Da lì qualche partita, un invito a cena, i primi regali. Era uno che sapeva corteggiare. È finita che ho abbandonato la mia carriera per seguirlo, sennò sarebbe stato arduo trovarsi”.

Appena sposata, Luisa muove i primi passi in sala, ma ha qualche difficoltà con le lingue, che la mette in imbarazzo, e si limita a far da spalla al più esperto marito. Nel frattempo inizia la sua formazione di autodidatta, per certi versi affine a quella di Nadia Santini. 


“Non ho mai fatto stage o corsi, ma nei primi tempi siamo andati a mangiare in tanti ristoranti. Mio marito era amico di parecchi ristoratori e io mi sono confrontata con altri chef; con uno di questi, che veniva in vacanza in zona, facevamo le nostre incursioni a Monaco, in Francia e in Svizzera per tristellati. Quello che mi ha colpito di più è stato Frédy Girardet a Crissier, per la semplicità e l’essenzialità dei piatti. Pochi prodotti per un grande effetto e tanto gusto, con il concorso delle erbe aromatiche. Ricordo in particolare una gelatina di bollito con le sue verdure presentate in modo fantastico, il gusto, la leggerezza, la morbidezza unici”


Nel 1981 la coppia rileva dagli Zucca, quelli del Rabarbaro, un piccolo hotel a Soriso e lo chef svizzero, che aveva conquistato una stella con la sua nouvelle cuisine a Borgomanero, decide di tornarsene a casa. “In pratica ho preso la palla al balzo. ‘Vado io in cucina!’ Mi sono trovata a gestire una cosa nuova, ma avendo parecchia memoria visiva, ricordavo gli spazi e i gesti, quindi ho cominciato a replicarli. Poi ci sono stati i libri, soprattutto il Pellaprat per la cucina internazionale, che insegna a muoversi da zero con i prodotti e le cotture, e Le ricette regionali italiane di Anna Gosetti della Salda, su cui ho appreso prodotti e tipi di cucina. Leggevo di tutto, riviste professionali e alla buona. Ad aiutarmi sono stati i miei studi, con la capacità di leggere fra le righe, capire, sviluppare un senso dell’organizzazione. Studiando e confrontandomi, è stato automatico fare qualcosa di mio. Piatti attenti all’abbinamento dei colori e dei sapori, semplici, con pochi ingredienti riconoscibili, senza confusioni”.

Arrivano così i primi signature: i ravioli ripieni di ricotta e formaggi ossolani, dalla Toma al Bettelmatt, con la loro sfoglia evanescente e fondente, che non ruba la scena al territorio; il filetto di fassone con salsa al Barbaresco, inamovibile dalla carta; il porcino intero al forno con il gambo farcito della sua dadolata trifolata nell’habitat del bosco, riprodotto con polveri e germogli; la patata con uovo e tartufo bianco d’Alba, ritmata da tre ingredienti esatti, cui niente si può aggiungere o levare. 


La seconda stella arriva nell’86, la terza nel ’98. “Ho capito di avere talento quando è passato uno chef svizzero, che non conoscevo. Gli ho servito un foie gras con mela e petali di rosa, lui alla fine ha chiesto chi ci fosse in cucina e quando sono uscita, vincendo la mia timidezza, mi ha chiesto dove avessi imparato. ‘Da sola’. ‘Tu farai grandi cose”, ha sentenziato. Il momento più bello però, che non mi stanco mai di raccontare, è quando è passata una coppia di svizzeri, che sembravano molto tristi. Dopo qualche mese hanno prenotato una tavolata e mi hanno chiamata fuori. ‘Lei non lo sa, ma mi ha salvato la vita. Ero malata di cuore, dovevo operarmi ma avevo paura. Mangiando da lei ho sentito nel piatto l’amore per questo lavoro e ho rotto gli indugi, ho deciso di operarmi per poter tornare al Sorriso’”.

Il profumo di rose sa di femminilità, un’etichetta che Luisa non rifiuta. “Credo che le donne portino nel piatto una maggiore sensibilità; la loro è una cucina più leggera, attenta, familiare”Ma si fa sentire anche la formazione umanistica (Luisa resta una fervida lettrice di letteratura contemporanea): “Studiare aiuta a memorizzare e a ragionare con la propria testa, seguendo la propria fantasia e mettendo insieme ciò che si è appreso. Cercherò di riaprire come ho chiuso, con gli ingredienti importanti che ho sempre acquistato e la filosofia che i miei ospiti si attendono nel piatto: tanto gusto senza confusione, linearità e freschezza. I vegetali li prendo da un contadino che lavora per me, dal raccolto nasce il piatto. Poi anch’io coltivo un piccolo orto. I formaggi li compriamo in Valsesia o in Val Formazza, la carne dal macellaio giusto per avere il vero fassone. E spesso ci spostiamo insieme, io e Angelo, ad assaggiare. Per il resto fin da subito ci siamo divisi il lavoro, a lui il vino e la sala. Gli piace così tanto conversare con gli ospiti, che ogni tanto mi chiedo se non gli si sia seccata la lingua”.


Partner in crime e regista del Sorriso, con prestigiosi trascorsi nella migliore hôtellerie internazionale, dal Kulm di St.Moritz al Claridge di Londra, Angelo amministra una cantina di un migliaio di etichette, dove il Piemonte la fa da padrone con Barolo e Barbera, i suoi vini del cuore. Ma non mancano Borgogna, Bordeaux, Champagne, Rodano e Germania, fino al nuovo mondo. Mentre in un angolo resta qualche bottiglia di annate speciali messe da parte dal padre, vignaiolo a Boca.

Al talento naturale della moglie (di cui dice “non mi ha mai sorpreso, conoscendo la sua intelligenza: basta vedere come condisce un’insalata”) sposa un know-how d’altri tempi. Nel carrello Christofle, in servizio anche ora che il ristorante è semivuoto, riposano 40 o 50 formaggi rigorosamente piemontesi, acquistati di persona girando e assaggiando, sposati ai vini più idonei, rossi, dolci, alsaziani… “Ieri per esempio ho messo un passito canadese sugli erborinati”.

Poi c’è il guéridon, la sua passione. “A Borgomanero facevo tanta lampada, ne usavo tre, sembravo un giocoliere. Qui però c’è un problema con i fumi che salgono in camera.  Trancio comunque di tutto, anche le donne. In stagione selvaggina, fagianelle, pernici, selle di capriolo. Oppure la faraona che serviamo con le pesche”.

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