Niente è lasciato al caso, tutto è costruito per regalare un’esperienza “tailor made”. Una sfida quella del ristorante il Pagliaccio, dove Anthony Genovese e Matteo Zappile delineano il profilo del cliente già dalla prenotazione per creare un’esperienza altamente personale.
La Storia
Travolge con un fascino che poche città al mondo possiedono. Quell’eterna emozione immanente, di un luogo che - come ogni altro fuori dal comune – incanta. Perciò è difficile non innamorarsene, allo stesso modo in cui è molto complicato non amare uno come Anthony Genovese, cuoco che supera i confini senza perdersi e che sa far perdere l’orientamento per poi permettere di ritrovarsi.Mai sotto i riflettori, l’impressione che dà è quella di un uomo selettivo, che non ha molto da perdere con questioni inutili come spesso si rivelano i pettegolezzi del mondo dell’alta cucina. Rigoroso, preciso, puntiglioso. E soprattutto sereno: “Sono passati diciott’anni ormai e penso che la mia cucina sia cambiata completamente, sebbene il succo sia rimasto tale: questa contrapposizione caldo freddo, l’uso delle spezie e dei prodotti orientali, l’agrodolce. Però adesso è molto più elegante, pulita. È più piacevole, forse anche perché ho superato quella voglia di colpire a tutti i costi. Oramai ho la consapevolezza di chi sono, una maturità del tutto differente. Credo di poter dire senza paura so dove voglio arrivare e questo è un bel traguardo”.
Qui al Pagliaccio, fin dal momento in cui si entra, si percepisce l’idea di armonia. Un’armonia costruita con intelligenza, mai artefatta, frutto di un progetto che a fianco di Genovese vede un manager come Matteo Zappile.
“Abbiamo scelto di mettere in piedi un’operazione di accoglienza piuttosto complessa: il ristorante è molto piccolo, ci sono solo dieci tavoli: nel 2018 è stata ultimata una grandissima ristrutturazione che sognavo da tempo. E poi, prendere la tovaglia e togliere via tutto quel che c’era sopra, piatti, bicchieri. Ora il tavolo parte completamente nudo, ridisegnato da un architetto in legno di pero e un’illuminazione che ne riflette l’intimità pur con una relativa vicinanza agli altri”.
Il palazzo è del 1502, con tutte le conseguenze del caso in termini di vincoli e tutele. “È stata una sfida molto importante per noi perché ha significato stravolgere completamente il servizio. Con lo chef abbiamo ragionato sull’idea di confezionare un menu su misura per ogni tavolo. Innanzitutto, partiamo dalla nazionalità dei nostri clienti che individuiamo grazie al sistema di prenotazione digitale. Così si inizia a delinearne il profilo. Da quando gli ospiti arrivano e li accogliamo, incominciamo a “leggerli”. Il tavolo non è mai assegnato a caso, viene scelto da noi sulla base di alcune tecniche che abbiamo sviluppato, legate a differenti fattori”.
Il menu viene definito anche in relazione ai vicini: nessuno accanto a te ha un menu uguale al tuo. “Vogliamo che ogni percorso di degustazione dei tre, completamente a sorpresa, che abbiamo impostato sia personalizzato. Perché un tavolo ‘business’ è differente da uno ‘romantico’, l’italiano è diverso dal francese o dall’inglese e così via”.
Così lo staff di Zappile procede, dettaglio dopo dettaglio, a comporre una comanda che si orienta, va da sé, in relazione alle preferenze del cliente. “In termini tecnici la complessità aumenta in modo esponenziale, ma alla fine si crea l’esperienza del Pagliaccio, oltre il semplice pranzo o cena”.
Zappile ci tiene però a sottolineare quanto tutto questo parta dalla squadra: “Una volta al mese mi impegno ad ascoltare il mio staff, ascolto e raccolgo le ambizioni di ciascuno, di persone che considero fantastiche. Ognuno di loro ha delle aspettative e tutti vanno stimolati; si parte da loro per arrivare al cliente. Del resto, non si possono lasciare le persone in balia di quello che è un servizio giornaliero, sempre la stessa cosa rischiando di arrivare a una routine che spaventa e fa perdere la motivazione a far bene”.
Così Matteo parte da formazione e autoformazione. Ogni membro dello staff è spinto a presentare agli altri, ogni settimana, un argomento scelto dal restaurant manager tra quelli attinenti alle sue competenze. “Lavoriamo con uno chef che nei suoi piatti presenta una complessità e una creatività molto importanti e questo ci obbliga a studiare, perché il motore di questo lavoro è la curiosità.
Farne scattare la molla accende una miccia che porterà a una carriera importante”. Ecco perché qui in Via dei Banchi Vecchi si sta bene, per via di una sintonia che non interrompe mai il flusso regolare tra ‘dentro’ e ‘fuori’, anche in momenti complicatissimi come questi.
Anthony racconta: “Il primo lockdown l’ho vissuto meglio, era una cosa completamente nuova, non sapendo cosa stesse accadendo era difficile proiettarsi nel futuro. Certo, ci sono stati grandi momenti di paura e di ansia, siamo umani ed è giusto che sia così. Mi diverto ancora a scrivere, a immaginare, a parlare coi miei ragazzi. E questa è la mia bolla di contenzione, quindi non voglio farmi travolgere da quel che succede fuori”.
Foto di Aromi Group
I Piatti
Il mondo gastronomico di Genovese è rutilante. Un sapientissimo uso di spezie, bocconi che spingono sull’acidità governata con sapienza, altri che virano su una dolcezza sempre bilanciata, accelerazioni e istanti rilassati, un saliscendi che in realtà non scende mai, tanto da arrivare alla fine e chiedersi: “Di già?”.Si possono tranquillamente nominare i piatti in ordine sparso, tanto sono eclettici mondi a sé. Da ricordare il “Viaggio tra ricciola e foie gras”, la perfetta cottura dell’agnello, servito con caviale e puntarelle e la pulizia per terminare con un “gioco” di dolcezza e acidità sul pompelmo.
Ce n’è però uno su tutti, “Volo al mare”, attraverso il quale lo chef riesce a far uscire dai banali binari della routine un ingrediente tanto buono quanto praticamente identico ovunque. Ecco che il famigerato piccione prende una strada gustativa differente in un’esaltante alternanza di consistenze e, presentato in una forma del tutto inconsueta e in due servizi, marinato, affumicato e lasciato asciugare all’aperto, servito tiepido e abbinato all’abalone cotto in un dashi, con la pelle croccante, la brunoise di cosce confit. Vinaigrette leggermente piccante con salsa coreana e umeboshi, erbe e fiori di calendula.
Quando gli si chiede come stia andando la cucina in Italia, risponde: “Credo che vada alla grande, penso che siamo i numeri uno al mondo ormai, da Palermo a Bolzano. C’è la mia generazione e poi la nuova generazione che è favolosa e non ha più tabù e paure; non è più legata a una certa tradizione che poteva limitarci, alle volte.
Credo che non si sia mai mangiato così bene, ma bisogna ottenere fiducia, essere rispettati e aiutati dalle istituzioni, perché serve ci supportino e capiscano chi siamo e cosa portiamo al paese. Il made in Italy genera vere e proprie ‘standing ovation’, la gente impazzisce, lo vuole a tutti i costi: questo dovremmo capire ed essere noi stessi.
Io sono arrivato in Italia nel 1990, all’epoca di parlava di cucina italiana con un occhio alla Francia, poi siamo andati seguendo la Spagna, poi ancora la Scandinavia e i paesi nordici. Giusto, giustissimo, ma oggi abbiamo una personalità unica. Siamo l’unico Paese che può permettersi di avere tradizione e street food, cucina di casa e alta cucina, quale altro Stato ha tutto questo?”.
Nessuno, davvero. E in pochi possono vantare un nome quale Anthony Genovese.
Credits foto: Aromi Group