La cucina francese mostra i muscoli da Trussardi alla Scala, dove Roberto Conti è finalmente uscito dal cono d’ombra di Andrea Berton e Luigi Taglienti.
La Storia
La Storia di Roberto Conti
È stata liberatoria, per Roberto Conti, la stella riconquistata, anzi conquistata al Trussardi alla Scala lo scorso 16 novembre, dopo un anno di offuscamento incomprensibile a molti. La sua cucina a dire il vero non sembra esser cambiata: ricca come lo richiedono i luoghi, per certi versi classica eppure muscolare nei contrasti e nelle concentrazioni. Determinata nei gusti come si addice a un giovane cuoco che voleva fare il calciatore. Anche se poi, come dice, “ho capito che mi piaceva di più stare in cucina”.
La passione covava fin dall’infanzia, quando in Lomellina chiedeva qualche spicciolo alla nonna per azzardare una fetta di prosciutto alla pizzaiola, come aveva sbirciato qua e là. “All’alberghiero però sono finito proprio perché ero bravo a tirare di pallone. I miei cercavano una scuola che mi lasciasse abbastanza tempo libero e a 17 anni già giocavo in serie C. Ma è successo che ho avuto un infortunio e soprattutto mi sono appassionato sempre più. Cosicché quando il padre di un amico mi ha chiesto di dare una mano agli antipasti nel suo ristorante, da Maria a Vigevano, ho accettato subito; sono partito commis, dopo due mesi ero capo partita e a 22 anni ero chef, con la soddisfazione di entrare a stretto giro in Michelin”.
“Ho lasciato a malincuore, perché sentivo di dover compiere altre esperienze. In particolare, volevo approfondire il vegetale, così ho trascorso un anno e mezzo al Joia con Pietro Leemann. Dopo un altro passaggio a Vigevano, ero già in parola con Cracco e Baronetto, che conoscevo per eventi; ma non avevano posto, così mi hanno mandato da Berton. Correva il 2009 e nel 2011, partito Ghezzi, ero già sous-chef del Trussardi. Di Andrea ricordo il rigore e la capacità di far marciare un due stelle al ritmo di 60-65 coperti al giorno. Quando è partito ho gestito per un mese e mezzo la cucina, poi è arrivato Taglienti, uno chef a tratti geniale, che mi ha offerto di restare da secondo. Dopo di che pensavo nuovamente di partire, ma Cracco, il regista della situazione, mi ha chiesto di restare e quando gli ho fatto notare che i piatti andavano cambiati, perché a ottobre c’era ancora l’anguria, mi ha esortato a buttare giù una bozza di menu, l’ha approvata e me l’ha fatta provare. Dopo una decina di giorni mi ha chiamato dicendo che con Tomaso Trussardi volevano farmi executive. Ho un po’ tentennato, a 32 anni avevo paura di bruciarmi, ma Cracco mi ha spronato: ‘Cogli l’occasione; se va male hai sempre un posto da me’. Così ho accettato”.
Il Ristorante
“Riprendere una stella è più bello che conservarla, perché è qualcosa che ti appartiene”, dice. Ha premiato la forma mentis di un cuoco vero, umile, disciplinato e desideroso di far bene. Soprattutto una cucina tanto francese nelle ispirazioni e nelle basi (i fondi, i consommé, le salse, la passione per il burro, francese a crudo, di malga tedesco per la chiarificazione, italiano nel nappage di carni e pesci per la tanta caseina che spuma), quanto nostrana nell’ingredientistica, con eccezioni quali l’astice bretone e il piccione, “che mica posso prendere in Duomo”. Tante cose arrivano da piccoli produttori via corriere, come i topinambur e i peperoni. “Ma soprattutto sono innamorato della selvaggina, cui da settembre a gennaio dedico un menu ad hoc. Proviene da Greppi o dalla caccia selettiva in Trentino ed è tutta frollata da me. C’è la lepre à la royale, che ho studiato per 5 anni girando le fattorie in Francia, dove ho una casa: quella cotta immersa nel vino dentro le pesciere, mentre io uso il sottovuoto per evitare la perdita di peso e ottenere una cottura al rosa. Ma ci sono anche il germano intero porzionato in sala con il tagliolino al tartufo bianco, come usava la vecchia guardia, e il piccione che teniamo in cella dentro il burro alle erbe per 2 o 3 mesi, arrostiamo al momento della comanda e trinciamo in sala”.
In alternativa si può pescare dalla carta od ordinare un altro degustazione: la Tradizione (dal manzo tonnato con carne cruda di Cazzamali, fondo di vitello e salsa alle acciughe del Cantabrico alla milanese con simil bernese al Minipimer e foglie di dragoncello ghiacciate, passando per gli spaghetti cacio, pepe e ricci di mare, ormai un signature) e il creativo da 13 portate. Un piatto che sta andando forte è Dalla brace, con quattro tagli a scelta (costata e tomahawk di manzetta prussiana ben marezzata, picanha e rib-eye di wagyu) cotti al Green egg e nobilitati dal guéridon, serviti con salse della casa e verdure al burro. “Perché la carne è una passione: è lì che si misura la febbre di un cuoco. Il pesce è meno complesso; lo servo crudo oppure lo preparo sempre alla francese, arrostito e nappato nel burro, con salse come la rouille, il burro bianco e la mugnaia”.
Preparazioni che fanno aggio sulla professionalità del maître Carlo Tinelli, maestro di cerimonie, sabrage e guéridon, allievo di Vaccarini ed Enrico Bernardi, passato per la scuola dei Cerea: “Le etichette sono 1500, con tanta profondità in Italia, sulla Borgogna e sui Bordeaux, più un’iniezione di nuovo mondo. Ma ci sono anche percorsi di abbinamento, liberi e sartoriali”, dice.
I Piatti
Si comincia con le classiche cialde soffiate di polenta, tapioca e riso stracotti, aromatizzati con curcuma, paprica, erbe disidratate e poi fritte. Poi gli amuse-bouche: la tartelletta di frolla di Parmigiano con royale di crema alla zucca, la finta oliva ripiena di maionese della salamoia e la tartare di gambero rosso crudo nella glassa di pomodoro al peperoncino habanero.
È ottima la crema di Parmigiano con la sua cialda, lamponi in polvere e freschi, insalatina di dragoncello e una quenelle di caviale, dove l’elemento lattico a contatto con il frutto di bosco crea una sensazione di classica panna acida. E i contrasti iniziano a picchiare sul ring.
Il carciofo è cotto sottovuoto in bariguole, bagno di aceto, vino, alloro e ginepro, poi arrostito nel burro e servito su una crema di gambi con polpa di king crab al vapore e una sifonata di classico zabaione salato al Marsala e al cardamomo.
Gioca su associazioni classiche, forse un po’ impulsivamente, il risotto alla Parmigiana mantecato con riduzione di succo di agrumi (arance, limoni e pompelmi) e velato da un battuto di scampi siciliani appena scaldati sotto la salamandra, più scorze di agrumi e ginepro a correggere la dolcezza.
Ottima la sogliola arrotolata, arrostita al burro e finita in forno, servita sul tarassaco saltato con crema di topinambur alla vaniglia oppure mugnaia sifonata, secondo la composizione del menu, più una foglia di tarassaco crudo in cima, per una sensazione di liquirizia.
In mancanza di lepri all’altezza, ad essere cucinato à la royale è il piccione: viene preparato accoppiando due volatili disossati, farciti con i petti e le rigaglie, il foie gras e il tartufo, poi cotti sottovuoto, mentre la salsa è a base di fondo di piccione e Porto rosso, senza sangue. “Perché la carne è più dolce, meno selvatica, quindi il maiale risulterebbe invasivo, è bene che il Porto regali acidità e le interiora abbiano un maggiore risalto”.
Chiude un Mondo di cioccolato, con uno zoccolo di pandispagna al cacao, la sfera ai tre cioccolati con contrasti di arancia e sopra una cupola di cioccolato temperato spruzzata d’oro, in omaggio ai colori della casa, parzialmente sciolta al tavolo versando un latte aromatizzato alla cannella per dinamizzare la presentazione.
Indirizzo
Ristorante Trussardi alla ScalaPiazza della Scala n 5 - 20121 Milano
Tel. +39 02 80688201
Mail ristorante@trussardiallascala.com
Il sito web