Un altro giovane talento che farà parlare di sé: alla Locanda del Notaio di Pellio Intelvi, Edoardo Fumagalli stupisce
La Storia
La Storia di Edoardo Fumagalli
Non sembra mai finire la salita per arrivare a Pellio Intelvi. Quasi mille metri sul livello del mare, su su verso la Svizzera, dove il paesaggio e il clima si fanno sempre più alpini. L’habitat azzurrino del lago di Como sembra distare ben più di quei 40 minuti di automobile, che però conducono in un luogo speciale. Lo hanno voluto Simonetta Manara e Attilio Schiavetti, il notaio che dà il nome alla locanda, da gourmet abituati a girare per l’Europa. E nessuno può arrivarci per caso.
Di cuochi ne hanno cambiati diversi, fra di essi la giovane Sara Preceruti, che nel 2011 ha conquistato la stella e quattro anni dopo ha optato per la corsa in solitario. Dopo un breve quanto sfortunato interludio, è stata quindi la volta di Edoardo Fumagalli, ventottenne di Carate Brianza dal talento tumultuoso. Al punto che seduto davanti al camino, fra le giravolte dei camerieri, al primo invio di appetizer fatalmente uno si chiede: “Dove sono finito?” Tali sono l’esattezza e la tecnica, l’immaginazione e il divertimento di una cucina tanto giovane nello sprint quando antica nella sapienza, che del classico sa riscoprire l’entusiasmo sempreverde.
Quella salita verso il primo ruolo di chef, Fumagalli del resto l’ha affrontata pieno di carburante nella testa, partendo da molto lontano, in tasca le mappe della cucina internazionale. “La mia famiglia non aveva nulla a che fare con la gastronomia, solo mia nonna aveva lavorato in Svizzera presso qualche refettorio. Ma cucinare per me è sempre stato qualcosa di spontaneo, fin da bambino: ricordo le mele cotte al forno, poi i biscotti. E siccome i miei mancavano spesso, i primi pasti per me e mia sorella. Mi è sempre piaciuta l’idea di preparare qualcosa per qualcuno. Così mi sono iscritto all’alberghiero e nel mentre ho fatto le prime esperienze, in un ristorantino vicino a casa per Natale e Pasqua e in un grande albergo, Villa d’Este, in estate. Una bella infarinatura. Dopo il diploma ho trascorso un anno abbondante al Danieli di Venezia, poi per imparare l’inglese sono volato in un albergo di Edimburgo. Ha prevalso infine la voglia di grande cucina e sono arrivato al Marchesino, dove ho trascorso quasi due anni, apprendendo le basi di una scuola francese italianizzata. È stato proprio su suggerimento di Marchesi, accompagnato dal suo chef Daniel Canzian, che in occasione di un banchetto presso l’ambasciata italiana a Parigi mi sono deciso a compiere un’esperienza oltralpe. E ho scelto il Taillevent di Alain Solivérès, perché cercavo un tempio della cucina classica. Vi ho trascorso quasi tre anni girando tutte le partite, fino a rivestire il ruolo di chef saucier. Lui me lo ricordo come un vero signore, sempre presente in cucina, particolarmente ferrato sulla selvaggina, che mi ha insegnato ad amare”.
“Io però volevo vedere dell’altro. Così sono partito alla volta di New York per lavorare da Daniel Boulud, senza cambiare linea né filosofia. Ai tempi aveva tre stelle, eravamo 40 cuochi per 260 coperti a sera. E anche lì ho girato tutte le partite, per terminare junior sous-chef. Trascorsi due anni, volevano restassi ma la nostalgia di casa ha prevalso e nel giro di una settimana mi è arrivata la proposta della Locanda del Notaio, grazie alla mediazione di Taglienti, dalla cui vecchia brigata arrivano i miei capo partita. Ma non ho smesso di fare esperienza. Prima del Marchesino mi ero fermato qualche mese in stage da Sergio Motta, per seguire tutto l’iter delle carni, dalla macellazione alla frollatura. E da quando sono qui approfitto della chiusura annuale per proseguire la mia formazione. Sono stato prima da Martin Berasategui a Lasarte, poi da Philippe Mille a Reims, mentre i prossimi mesi li passerò a Piazza Duomo con Enrico Crippa”.
Foto di Andrea Fongo
Il Ristorante
Nel momento in cui Simon Reynolds teorizza la “retromania”, intesa come perdita dell’orizzonte futuro e rielaborazione compulsiva del passato, che in cucina significa revival francese; mentre impazza la neo-stalgia di fondi e salse, presse e guéridon, lungi dal subire il fardello della cultura classica Fumagalli si mostra capace di palleggiarne i feticci, come raramente è dato di ammirare in Italia. Con guizzi da fantasista, in tutta leggerezza di testa e di gola, fendendo l’aria rarefatta di montagna. I suoi prodotti sono in gran parte locali: i funghi della Val d’Intelvi, porcini, finferli, morchelle essiccate a primavera; in estate anche le erbe e le bacche spontanee, levistico, more, mirtilli e uva spina che crescono a ridosso del giardino col frutteto; nonché gli ortaggi dell’orto di proprietà esteso su 300 metri quadrati. Poi ci sono i formaggi, i latticini e il burro d’alpeggio. Soprattutto il pesce di lago, protagonista di un menu degustazione quando la stagione lo consente. “È un prodotto che amo moltissimo, tanto quanto il pesce di mare, a condizione che sia di pezzatura giusta e selvaggio. Lo lavoriamo in modo delicato, per rispettare il gusto e la struttura. L’anguilla come il lucioperca e il salmerino. Ma ho soprattutto un debole per le carni e la loro cottura: il piccione in carcassa, la selvaggina di Moncucco, polli e capponi di Morozzo”. Soprattutto l’anatra intera, protagonista di un menu à la presse composto di petto, pasta ripiena e cosce.Costa 250 euro per due persone; poi ci sono il degustazione dedicato al territorio composto di 5 corse a 70 euro (come il pesce di lago) e quello d’autore che ne conta 7 a 105. Più la carta, dove risalta una lepre à la royale alleggerita di metà delle frattaglie, traslocate dalla farcia a un crostino. La cantina viene seguita da Serena Emanueli: è tutta italiana, con un crescente orientamento verso piccole cantine e naturali. In sala officiano invece Mattia Colò e Franco Venere.
I Piatti
Dopo l’assortimento di panini con bonbon colorati di burro (al naturale, allo zafferano, alla barbabietola, al prezzemolo), sono subito eccellenti gli appetizer: la meringa salata al Parmigiano panata ai cereali soffiati e chips di Parmigiano; il “sigaro” di buccia di patata dell’orto essiccata e fritta a cannolo con polpa alla brace e caprino locale su cenere commestibile all’olio di cipolle alla brace, per un divertissement sui tuberi sotto la cenere; le chips di riso stracotto all’alga nori e paprica; la taccola rinfrescante appena scottata, farcita di maionese alla senape. Il benvenuto, molto comfort, è un finto uovo al tegamino con il tuorlo di quaglia poché, appena intiepidito, la crema di patate comasche, sotto un crumble al cacao e tutt’intorno la quinoa croccante per la crosta.
Il gambero carabiniere è il piatto che ha vinto il concorso San Pellegrino Young Chef l’11 settembre 2017; seguiranno perfezionamento e training con Anthony Genovese in vista della finale mondiale di maggio. Ed è un piatto straordinario per food design e concezione. Sotto il crostaceo appena passato al vapore ci sono dadi di animella sbollentata e arrostita al burro nocciola: la similitudine fra i due ingredienti dolci e grassi è abbracciata nella parentesi di una cialda spolverizzata di polvere d’oro. Più una granella croccante di sesamo tostato, alghe e chicchi di risotto alla milanese in granella, quale esaltatore lombardo, per la sapidità e la misticanza in un cestino di cialda di riso per rinfrescare. Dove si avverte l’incipiente passaggio a Piazza Duomo.
Spuma di patate, uovo di quaglia pochè al tartufo, crumble di cacao, quinoa soffiata eolio all'erba cipollina
Riuscitissimo anche il foie poché, che in Italia non si mangia mai: la scaloppa spadellata è servita con un consommé classico di coda di bue, per l’intensità e l’effetto Rossini, e verdurine varie, una brunoise di crostini di pane ed erba cipollina. Quasi un pot-au-feu al foie gras, tanto tecnico quando colorato e vivace. Perché sui fondi (uno per carne) si può scherzare, eccome.
Per primo ci sono gli gnocchi di patata comasca arrosto, ma tostati in padella sui due lati alla maniera tedesca, serviti con morchelle essiccate alla parigina, con panna e vin jaune, e una ricotta semistagionata. Oppure, deliziosi, i ravioli ripieni di “maionese” alla clorofilla di prezzemolo, con il latte di soia per alleggerire, acciuga e olio all’aglio per l’effetto salsa verde. Sono guarniti con bocconcini croccanti di aletta di cappone, per il classico binomio salsa-carne, ostriche al naturale, lenticchie soffiate e cipolle in agrodolce.
Gioca anche la zuppa di mare, ottenuta come un fondo dalle carcasse tostate in forno e bagnate al fumetto, più un’infusione di alghe; oltre a bocconi di pesci e crostacei cotti separatamente, ci sono farce fini a base di pesce bianco e crostacei o molluschi, modellate a forma di stella o paguro. Resuscitate dall’oblio gastronomico col sorriso.
Ma cambia registro in modo promettente il piccione in doppio servizio: prima il minimalistico petto cotto in carcassa con costine rosse dolcissime, fondo e su un lato una ciotola di uva bianca ghiacciata al lime, che funge da intermezzo o meglio interpiatto fra un boccone e il successivo; poi la coscetta a raviolino comfort, con spuma di tartufo nero messo in infusione nel latte.
I dessert sono firmati dallo chef pâtissier Damiano Bonomi: dopo il toast di gianduia con marmellata di albicocche, arriva la mousse di cioccolato al cardamomo e arancia. Con il pedale dell’acidità più calcato e l’Italia in testa, Fumagalli è già pronto per essere un big di domani.
Indirizzo
Ristorante La Locanda Del NotaioVia Piano delle Noci n 42 – 22020 Pellio Intelvi
Tel. +39 031 8427016
Mail info@locandadelnotaio.com
Il sito web