A Roma nell’hotel 5 stelle The H’All c'è il ristorante all'Oro, 1 stella Michelin, di Riccardo di Giacinto e Ramona Anello.
La Storia
La Storia di Riccardo di Giacinto
Se Milano ride, Roma non piange. Pur senza l’effetto doping di Expo, la ristorazione romana da qualche anno manifesta una vitalità inusitata, con il fiorire di nuovi esercizi, per tutti i format e tutte le tasche, e il consolidamento, l’ampliamento o la partenogenesi di quelli preesistenti a opera di un manipolo di protagonisti storici. Fra di loro c’è Riccardo Di Giacinto, chef nella sua prima maturità, che da un anno a questa parte con la moglie Ramona Anello, socia e partner in sala, sta incassando gli interessi di una gavetta instancabile, depositata nella banca del successo.
I locali sono diversi: il ristorante gourmet è lo stellato All’Oro, che però dal mese di marzo si è spostato all’interno dell’hotel 5 stelle The H’All, anch’esso gestito dalla coppia. Poi c’è Madre, inaugurato poco più di un anno fa. “Il filone cui si approssima è quello della pizzeria gourmet”, spiega Di Giacinto. “Ma il concept comprende anche ceviche e maritozzi. E sono pizze da chef, in cui metto a frutto le mie esperienze passate con un respiro internazionale, guarnizioni molto ricche e gli stessi ingredienti di All’Oro, dall’olio Cetrone ai gamberi rossi”. Ma è in arrivo sempre a Roma un’altra sfida prestigiosa, che rimpolperà una squadra già composta da 70 dipendenti.
Un piccolo miracolo imprenditoriale, per uno chef partito da zero, forte solo della sua formazione. “Mio papà era orefice, da cui il nome All’Oro. E quando gli ho detto che volevo fare il cuoco, in anticipo sulle mode correnti, era disperato. Non ho frequentato l’alberghiero, ma un istituto tecnico commerciale, poi ho messo piede in una trattoria e a 18 anni ho lasciato Monterotondo. Sono seguiti 4 anni a Londra, dove ho fatto il lavapiatti, il pizzaiolo e finalmente mi sono fermato da Marco Pierre White. Ci sono arrivato perché è una città ultraselettiva, è tanto facile trovare un lavoro quanto perderlo. Ma le opportunità non mancano.
Ed è stato così che sono arrivato anche a elBulli, dopo un passaggio presso Estrella de plata, un tapas bar pazzesco. Ricordo che il giorno del colloquio con Adrià, gli ho detto: ‘Non ho soldi per pagarmi scuole e corsi, ma posso lavorare 26 ore al giorno’. Tanto che la notte avevo paura di addormentarmi, perché tardare anche un solo minuto voleva dire esser fuori. C’era il mondo in coda per entrare, ed è stato il mio secondo servizio militare. Vi ho appreso tecniche che tuttora uso e tante ricette originali, che però non ho mai voluto replicare, perché negli anni ho cercato di costruire un’identità coerente. Senza voler stupire nessuno, senza spettacolarizzazione, alla ricerca del gusto buono. Poi dopo un passaggio a Hong Kong ho fatto il Don Alfonso, uno dei pilastri della ristorazione italiana”.
Tre ristoranti diversissimi, per conoscere la culla francese, l’avanguardia e il Mediterraneo, schivando ogni etichetta. “Io però avevo il pallino di aprire qualcosa di mio. Così nel 2007 ai Parioli con Ramona ci siamo messi a scavare per terra e fare i lavori senza nemmeno la luce. Ne è venuto fuori un posto piccolissimo, dove nei primi tempi ho servito una cucina di impatto, rivista in chiave internazionale. Il punto di svolta è stato un articolo di Gianni Mura, che ha funzionato da amplificatore, poi nel 2010 è arrivata la stella insieme ad altri riconoscimenti. Ramona nel frattempo continuava a lavorare all’agenzia immobiliare, la sera chiudeva l’ufficio, si toglieva la giacca e veniva al ristorante. Servendo in sala e frequentando i corsi AIS si è appassionata sempre più. Così quando ci siamo trasferiti in un hotel cinque stelle, utile per zoomare sui meccanismi dell’H24, ha lasciato la sua occupazione per affiancarmi a tempo pieno. Ed eccoci qui: siamo stati chiusi 15 mesi mentre ristrutturavamo la palazzina di The H’All, già sede di uffici Finmeccanica. Aprivamo il cantiere ogni mattina per seguire i lavori nel dettaglio”.
Ad andare in tavola al nuovo All’Oro è una cucina tecnica e precisa, che non rinuncia alla cremosità di pancia e a una generosità tutta romana, anche se qualche azzardo potrebbe favorirla con la stampa. Di Giacinto la definisce “tradizional contemporanea” perché prende spesso le mosse da associazioni consuete, per ribaltarne il segno. Non a caso la sua icona è il rocher di coda alla vaccinara, che estrapola il cacao dalla ricetta originale quale medium con la pralina. I prodotti sono spesso ma non necessariamente locali (un’azienda agricola fuori città, la macelleria, la pescheria); la carta dei vini da 600 etichette, firmata da Ramona, punta sulla “piacevolezza”, con il riesling e il pinot nero in evidenza.
I Piatti
I degustazione sono 4: All’Origine, con 5 classici della casa a 120 euro; l’Oro di All’Oro, con 9 portate d’autore a 150; All’ErbivOro, che ne conta 4 vegetariane o vegane a 88, e Il vostro All’Oro, con 4 scelte del cliente a 98. Il benvenuto riprende lo schema del rocher, con la conversione in appetizer di friandises e dolciumi vari. Contromano sull’autostrada del pasto. Viene suddiviso in 4 invii, per una maggiore valorizzazione, la centratura di temperature e consistenze e la massima leggibilità da parte dell’ospite. Fra i 9 assaggi figurano il cucciolone burro alici, con il biscotto al malto quale crostino di un evergreen del territorio; la panzanella liquida nel pomodorino; il marshmallow al Parmigiano e tartufo; la crème brûlée alla paprica, lime e sale affumicato; il maritozzo con friggitelli e uova di pesce; il macaron con sesamo e tahina per un ping-pong di dolcezza e acidità.
E si prosegue à rebours, come in uno scherzo futurista, con l’ormai classico Tiramisù di baccalà, cotto nel latte ed emulsionato all’extravergine da itrana, per una classica mantecatura, servito con guanciale e spuma di patate per un’altra associazione familiare, più una spolverata di cacao per la struttura e l’evocazione del dessert. Dove è la cremosità tradizionale a fungere da trait-d’union con l’universo dolce.
Ma il concept All’Oro è più esplicito che mai nello Spaghetto aglio, canocchie e peperoncino. Piatto imbastito su associazioni caserecce, usando gli stessi ingredienti di una trattoria marinara, che torna al noto attraverso le peripezie della tecnica, per un esito tutto da scarpettare. “La salsa è quasi una provocazione: 100% aglio, pastorizzato ed emulsionato all’Hotmix per ingentilirlo. Più le canocchie crude, il peperone crusco per l’affumicato e il friariello verde per l’erbaceo, un olio laziale sabino e la bisque di canocchie emulsionata all’ultimo momento”.
La capasanta alla brace è scottata nel forno a legna, poi pralinata nel pane al nero per simulare l’arrostitura. Viene servita con un millefoglie di patate al latte e timo che ne riproduce la forma e la consistenza e una crema di speck ancora per l’affumicato.
Lo schema del travesti, non del dolce in salato, ma fra capisaldi culinari, mutuato da elBulli è anche alla base del sushi di fassona avvolto nel tartufo al posto dell’alga, in bilico fra Langa e Giappone sul filo dell’umami. Per condimento Aceto Balsamico, spuma di Parmigiano e terra di nocciole.
Ancora Piemonte nel vitello cotto a bassa temperatura, rosolato in padella e pralinato con i grissini in polvere, servito con spuma di salsa tonnata da tonno fatto in casa, giardiniera, uovo di quaglia al caviale a riprendere l’ittico. Una botta di acidità che sorregge il crescendo esemplare del menu.
Ma il colpo di genio è racchiuso nei cappelletti in “brodo asciutto”, che riesumano l’inversione bulliana fra interno ed esterno. La farcia infatti è una gelatina naturale di doppio brodo di vitello, frutto di mille prove, ottenuta dalla bollitura di tagli ricchi di collagene nel primo liquido. Il cappelletto viene chiuso durante il servizio, con il gesto delle grandi trattorie, e servito con crema di Parmigiano, zafferano e scorza di limone, sulla falsariga della stracciatella. Ne risulta invertita la tempistica del piatto, con la percezione del formaggio lavata via dall’esplosione liquida e calda che risciacqua, senza il ricorso a tecniche o prodotti impossibili.
Il dessert riprende lo schema del travesti, rovesciando il rovesciamento. È infatti la versione dolce di un inizio salato, la bruschetta, ripensata come pain perdu di pan brioche caramellato con burro e zucchero, gelatina di pomodoro, gelato di basilico e cuori di pomodoro per l’impennata acida.
La fotografia di copertina è di Andrea Di Lorenzo
Indirizzo
Ristorante All’OroVia Giuseppe Pisanelli, 23/25, 00196 Roma RM
Tel. +39.06.97.99.69.07
Mail info@ristorantealloro.it
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