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La cucina continua di Oliver Piras

di:
Alessandra Meldolesi
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Formato in Francia, folgorato in Danimarca, passando per Italia e Spagna. Così nasce la cucina italiana e personale di Oliver Piras, che insieme alla fidanzata Alessandra Del Favero, hanno aperto da pochi mesi il ristorante Aga a San Vito di Cadore.

La Storia

La Cucina di Oliver Piras


Il limite? È il punto a partire dal quale ogni cosa inizia la sua essenza. Compresa la cucina italiana, che Oliver Piras mette nel mirino da diversi confini. La Sardegna natale come l’altrettanto aspro e originario scenario dolomitico.


La cornice attuale è San Vito di Cadore, dove con la fidanzata Alessandra Del Favero da pochi mesi fa scorrere il cristallo dell’Aga, ristorante intitolato all’onomatopea di un ruscello in picchiata sulla dolomia. Acqua come latte della terra, acqua immaginaria grazie all’absolu du reflet (Bachelard). L’habitat selvaggio, dove erbe e fiori sembrano sprigionati dai crepacci, porta mentalmente in Scandinavia, per quanto il Noma non sia solo nel piatto. Compone piuttosto una cucina continua, che sulla forchetta infila il CV dello chef: la Francia di Robuchon come la Spagna dei fratelli Roca e l’Italia di Vittorio a Brusaporto.


In famiglia a dire il vero c’era già una cuoca eccellente, nonna Elena, a capo di uno fra i ristoranti top di Cagliari. Ma la vocazione gastronomica si era presa una pausa prima di ribussare imperiosa alla porta dei Piras. Dopo la scuola alberghiera sull’isola e una preziosa esperienza al fianco di Roberto Petza, capofila della nuova cucina sarda, ecco Oliver trascorrere due anni a Londra alla corte di Joël Robuchon, sacerdote del rigore e maestro di tecniche mai dimenticate. Aggiornate semmai al Celler de Can Roca, dove lo stage è durato 3 mesi, e soprattutto al Noma di René Redzepi, tanto che lui stesso riassume lapidariamente il CV: “formato in Francia, folgorato in Danimarca”.



Nella famiglia allargata di casa Cerea, un po’ chef de partie, quasi secondo (“perché così Chicco interpellava ciascuno di noi”), incontra la compagna Alessandra Del Favero, già studentessa all’ALMA, cuoca e regista dell’approdo in alta quota. Un passato di sciatrice professionista e maestra di sci, espertissima delle montagne attorno all’hotel di famiglia, Villa Trieste a San Vito di Cadore, con Oliver oggi gestisce la ristorazione del complesso. Due cuori e quattro tavoli avvolti nel calore del legno e nella bambagia di un sogno: basare fra queste vette una cucina di prossimità dai riferimenti ad ampio raggio, magari stringendo alleanza a 40 minuti di macchina (quando non nevica) con Norbert Niederkofler, impegnato nel progetto Cook the Mountains, volto all’autosufficienza del distretto alpino attraverso l’alleanza con i produttori.



A due mesi dall’apertura, l’esplorazione e la sperimentazione procedono in perfetta simbiosi. I piatti in menu sono stati creati a due teste e quattro mani nei mesi precedenti l’inaugurazione, anche se durante il servizio Alessandra si occupa soprattutto di antipasti. Sono anche il frutto della collaborazione con il professor Federico Selvi dell’Università di Firenze, che nel mese di maggio si è fermato 4 giorni per illustrare il tesoro di erbe commestibili custodito nelle montagne, dalla pimpinella all’aspragine, radicate soprattutto nei terreni vulcanici del monte Pelmo (già in agenda un approfondimento sulle bacche). Ed è così che ogni pomeriggio la coppia monta gli scarponi da trecking per dare inizio al foraging, soprattutto adesso che il freddo incipiente prescrive la preparazione di conserve; mentre la mattina alle 9 e mezzo sono da raccogliere le erbe e le verdure dell’orto, un ring situato ai piedi del monte Marcora e coltivato dal papà di Alessandra, che è anche cacciatore. L’approdo assomiglia a un Dolomitic Food Lab, consacrato alle potenzialità del terroir.




A dispetto delle apparenze, tuttavia, sui tavoli nudi, fra cui volteggiano i cuochi, non c’è solo Scandinavia.

I Piatti

Il menu si compone anzi come un viaggio a ritroso nella storia della cucina, che dalle provocazioni in stile Noma, improntate a un naturalismo integrale, risale all’intramontabile classicità di stampo francese, più saltuarie intermittenze italiane o specificamente sarde. “Ma l’opposizione non esiste, per chi ha vissuto il Noma dietro le quinte. Nelle cucine scandinave c’è tanta Francia: montagne di burro, soprattutto salse con tutti i crismi. Direi anzi che Redzepi impiatta la cucina francese in modo nuovo. Già conoscevo la fermentazione, per esempio del limone confit, da Robuchon; e quando mi sono trovato confrontato a salse a base di burro bianco, ottenute magari con un’infusione di lische, ho avuto un sentimento di déjà-vu”.


La cucina punta quindi alle intersezioni stilistiche, sembra anzi cercare lo spigolo fra diverse influenze come la vetta da cui lanciare il suo uncomfort food. A cominciare dal bloody mary di pomodoro camone e cicoria proposto in amusebouche, indeciso fra cocktail, pinzimonio e frappé; la Sardegna dell’ortaggio e la Spagna del sifone. O dal baccalà mantecato sotto forma di meringa bruciata al cannello, un ricordo di Vittorio, dove la crosta bruciata del pesce crogiolato era appannaggio dei cuochi: la sua acqua filtrata al superbag e montata con gli albumi si imbatte nell’evocazione di un’altra crosta, la cialda di polenta fritta. Mentre la piadina di nasturzio dell’orto con tartare di cervo introduce suggestioni latine, filtrate dalla foglia di grano del semi-sardo Roy Caceres.


Le monografie dedicate al cipollotto e alla barbabietola estraggono contrasti dal prodotto con lo strappo deciso di un contadino nel campo: il primo è servito grigliato con una punta di crema di cipolle e una zolla di cipolla bruciata, la seconda sotto forma di tagliolino con foglie ed escabeche di rapa, sul modello della ricetta di pomodoro sarda. Evocano rispettivamente la geofagia avanguardista e le paste-non-paste. Soprattutto inverano quel che a detta di Marchesi è il sogno di ogni cuoco: la creazione di un piatto da un unico ingrediente, di cui la tecnica sventaglia sfaccettature inopinate.

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r />Ancora America Latina nel ceviche di salmerino con latte di tigre al cavolo viola, dove il pesce viene appena intiepidito sotto le lampade per impiattare e l’ortaggio, centrifugato subito prima del servizio, smorza con dolcezza minerale l’acidità del lime. E l’Emilia confrontata alla Francia nel sandwich di pomodoro confit e testa di maiale al basilico greco, quasi una pasticceria che riesuma la tête de veau di Robuchon, affinandola nelle sembianze di un millefoglie fondente, dinamizzato dall’acidità del condimento.

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r />Grande misura, quasi un esercizio di padronanza dalla forza, nei cappelletti di finferli e limone irrorati al tavolo con tisana di porcini ai licheni e olio di resina, ricavato a inizio stagione dalle essudazioni degli alberi, sciolte con l’alcol e stemperate nell’olio di oliva. Dove la tradizione della pasta in brodo è sottoposta alla frizione dei tannini di larice, più spessi e abrasivi di quelli di betulla, procacciati dal fratello di Alessandra, titolare di un’impresa boschiva.


Il risotto con ricotta dei fratelli Talamino (che forniscono anche latte e burro di malga) e melanzana al barbecue dagli aromi di caffè trova conforto nel letto di gamberi in shabu shabu, veicolo di umidità, testura, freschezza. Mentre l’orzo, coltivazione tipica dell’area, incontra la Sardegna per la mediazione della bottarga di trota, dell’aglio fermentato un mese, a fini aromatici e di digeribilità, e del prezzemolo, ridotto in crema con la radice per la dolcezza e la testura.

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r />Più classici i secondi: la trota salmonata, che in uno studio sul colore incontra il canederlo trompe-l’oeil di carota allo zenzero, come l’impeccabile quaglia, passata al vapore e poi rosolata al burro, servita con panna semimontata infusa al rafano fresco e fagotto di cavolo cappuccio al barbecue, farcito con la sua acqua. O ancora la royale di gallina, fusione dei colli ripieni della paleocucina contadina con la ricetta deluxe per antonomasia: miseria e nobiltà di un gallinaceo spinto dalla carica ematica e amarotica del quinto quarto.

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r />A velare il gelato di frutta secca un foglio di mirtillo addensato dalla pectina naturale, per un effetto muesli. In chiusura la sconvolgente bavarese di fieno con latte montato a mo’ di cappuccino e cialda di cioccolato bianco all’orzo soffiato, dove i prodotti d’alpeggio (il fieno maggengo essiccato in malga, il latte crudo appena munto) fanno virare in direzione nord una classica bavarese, instaurando il contrasto fra tannicità e grassezza. L’originale presentazione a segmento è ottenuta filmando il piatto e iniettando all’interno l’apparecchio, in modo tale che solidifichi in verticale dentro il cestello della lavastoviglie.

 

Le fotografie dei piatti sono di Pietro Pio Pitzalis


 

 

Indirizzo

Ristorante Aga

Via Trieste 6 -32046 San Vito di Cadore (BL)

Tel : +39 0436 890134


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+39 0436 890134


Mail: Info@agaristorante.it


Http://agaristorante.it/

 

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