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Talento globale e gusto italiano: finalmente Lorenzo Cogo

di:
Alessandra Meldolesi
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Coraggioso, ipertecnico, astrattista from scratch, all'unisono con le tendenze globali (e forse qualche nota più in là nel paradosso). Dimenticate il check-in per Sidney e Singapore: l'avanguardia non conosce jet lag a Marano Vicentino.

La Storia

La Storia di Lorenzo Cogo


Ha dato una bella sveglia alla cucina italiana, il canto di El Coq. Risuonato nel silenzio sopra i campi di mais di Marano Vicentino, quando la cucina italiana aspettava l’alba del ricambio generazionale.


I cinquantenni un po’ trafelati nella corsa all’oro della novità, dietro di loro nessuno all’orizzonte che raccogliesse atleticamente il testimone.


Invece no. Ci ha pensato Lorenzo Cogo ad allungare la mano. Giovanissimo eppure ricco di expertise, enfant prodige in piena regola con i suoi 26 anni sgocciolati sui fourneaux più caldi del pianeta food. Figlio d’arte di ristoratori della zona, dediti a formule meno tranchant della sua, Lorenzo ha infatti temperato il suo stile a fianco di Maestri cutting-edge, prima di tornare a calcarlo sulla quadrettatura campestre del territorio.

Animella di vitello



Il leggendario Victor Arguinzoniz su tutti, burbero maestro del fuoco sulle cui braci si è scaldato, forgiato, arroventato. Fino a raggiungere il calor bianco di una personalità originaria. “A spingermi a cercarlo è stata un’ossessione: il profumo delle braci nel camino di casa. E lui mi ha trasmesso per due anni le sue tecniche, la scelta della legna, i tempi e i modi che l’hanno consacrato primo asador di Spagna. Sebbene la cottura fosse una sua prerogativa assoluta, cui nessun altro aveva accesso, e io oggi la eserciti nel forno a legna di Paolo Parisi anziché sulle sue griglie inventive. Ancora adesso Victor mi spedisce la carne di vacca rubia gallega, che non ha eguali in Italia per palatabilità e complessità gustativa. E la cucino come lui per non mancargli di rispetto”. Una spirale empireumatica sulla quale ha scalato le tappe, sinuosa e lisergica nel ricorrere di note fumé e componenti tostate.


Shabu shabu di carne Kobe



Nel Pantheon però ci sono anche René Redzepi, presso il quale si è fermato per 6 mesi, mutuandone l’afflato naturalista insieme a qualche spunto tecnico, e soprattutto Seiji Yamamoto, chef del Ryugin di Tokyo, per l’immancabile bagno nella culla giapponista. “Quando sono arrivato ero poco più che ventenne, ma per i giapponesi l’autorevolezza è una funzione dell’età. Quindi ero praticamente invisibile. Un giorno Yamamoto mi ha chiesto a sorpresa di cucinargli un piatto a base di trippa di baccalà, ingrediente che mi era del tutto sconosciuto. Ci ho lavorato per giorni e lui ne è rimasto così sorpreso, da decidere di metterlo in carta. Un passaggio decisivo per acquistare fiducia in me stesso”. E ancora Vue du Monte a Melbourne, Tetsuya e Marque Restaurant a Sidney.

 

Il Ristorante


Il risultato è da due anni sulle tavole di El Coq, ristorante giovane e dinamico come il suo chef patron, il servizio svelto, la cantina succinta ma in progress, le pareti bianche su cui proiettare i fotogrammi di un futuro abbondante. I menu sono due: uno incentrato sui prodotti, che comprende le celebri grigliate; l’altro dedicato all’ “io culinario”, composto di 6 o 10 portate a sorpresa.


Sono il banco di prova di quella che Lorenzo ha battezzato come “cucina istintiva”, per dribblare etichette tanto posticce quanto appiccicose. Ma che si configura in realtà come l’esito di un apprendimento tanto matto e ostinato da diventare consuetudine di una seconda natura.


E basta guardarlo, Lorenzo, per riconoscere nei capelli biondi spettinati e nella figura smilza la grazia di un Petit Prince gastronomico, ultima incarnazione di quel puer aeternus transitato per i panni di Icaro, Amadeus e Peter Pan, sotto il segno del volo e della tensione al rinnovamento gioioso. La griglia e le sue evocazioni rappresentano il 90% di El Coq, secondo la statistica creativa dello chef: un ordito che si fa tela nell’abbracciare suggestioni ed intuizioni ex nihilo.

I Piatti

Perché la tradizione brucia insieme ai tizzoni trasmettendo calore a ricette estranee a qualsiasi repertorio, come si usa fuori dalla nostra piccola Italia, generate magari da una sensazione o da una visione estemporanea (i tortelli di sola piemontese con olio di semi di zucca e semi di zucca sono la reminescenza di un tuffo panico nel fieno). Fino a delineare una avveniristica archeologia del futuro, che prende spunto da quanto è sepolto nella memoria atavica per ingaggiare il testacoda della rivoluzione culinaria.


Acquario



Gli esordi sono generalmente freddi: è il caso del gioco amaro della foglia di cicoria con avocado e granita di mela verde o dell’ormai celebre barattolino Ikea con cozza, granita di dashi e fumo di ciliegio. Quasi una morra dove si scontrano gli elementi aristocratici di acqua e fuoco.


Fondale marino



Ma dopo le geometrie gustative iniziali, che resettano il palato sulla mineralità, sull’affumicato e sull’amaro (cifra contratta dall’amico Paolo Lopriore, ma reinterpretata in chiave soft), la complessità vince nel fondale marino, dove il cliché del paesaggio commestibile si scioglie nelle vibrazioni gustative del bulbo alla brace, tesoro nascosto dalla spuma di zucchine alla menta con segatura di salmone affumicato e uova di pesci. E soprattutto nella piovra confit acidulata da un letto di finocchi lattofermentati in stile Noma, esaltati dal contrasto con l’acidità ulteriore di un agrodolce e “umamizzati” dal fondo di alga kombu.


Topinambur sotto la cenere



Nitidissimo il topinambur cotto sotto la cenere (ancora una volta dearcheologizzato), carnoso e dolciastro nel panneggio virginale della pelle di latte, quasi violato dall’aggressività amarotica del lampascione spinto dal centrifugato di cime di rapa con foglie di cavolo cinese. Dove l’elemento mitico, extratemporale della brace viene avviluppato dalla vitalità fitomorfa e naturante della clorofilla, resuscitando una rêverie della rovina romantica invasa dalle macchie verdi del sentimento. Altrettanto imperdibili i dessert, come il gelato di carciofo con tegola di orzo e aneto, gioco tostato-anisato che tesse in modo nuovo i fili evanescenti del pasto.

Indirizzo

Ristorante El Coq
VIA Canè,2/C – 36035 Marano Vicentino (VI)
Tel. +39 0445 1886367
E-mail: ristorante@elcoq.com
Il sito web

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