Il cuoco “radicale” ha ceduto il passo a un uomo tranquillo che non brama trionfi, ma cerca innanzitutto la pace mentale. “Ero uno chef terribile, cambiare mi ha richiesto anni di terapia e meditazione”, confessa René Redzepi. “Dopo 150 anni di abusi, nei ristoranti le cose stanno migliorando”.
La notizia
“Ne usciremo migliori”, era il mantra un paio di anni fa. Di fatto la pandemia ha trasformato nel profondo tutti noi, anche i grandi chef. L’ultimo menu di René Redzepi, scrive Guillermo Elejabeitia, cambia radicalmente registro per eleganza e delicatezza, fino a sfiorare “l’accademismo formale”. Il cuoco radicale e crudo, celebrato per il primitivismo e la provocazione della crudeltà, insetti compresi, ha ceduto il passo a un uomo tranquillo che non brama trionfi, ma cerca innanzitutto la pace mentale. Complici forse le tre stelle, che hanno cambiato la sua visione della ristorazione. Non si tratta più di innovazioni, tecniche, testure paradossali, ma di come costruire un futuro prospero per tutti.“Vogliamo essere il riflesso del momento e in questo periodo credo che abbiamo bisogno di abbracciare dolcemente i più, non troppo stretto, per far sentire loro che ci siamo. Per questo motivo abbiamo voluto offrire un menu divertente, piacevole, pensato affinché la nostra squadra preparandolo ne goda, forse apparentemente classico, ma con molte tecniche nascoste. Un abbraccio soave”, commenta. “Sicuramente c’è il rischio di abusarne, ma credo profondamente nel potere delle fermentazioni. È il modo più antico di cucinare gli alimenti. Il mondo ha sperimentato solo una piccola porzione di quello che si può ricavare da questa tecnica in termini gustativi. C’è molto da scoprire, ma come la maggior parte delle cose, esagerando la gente si stufa. Per questo al ristorante non raccontiamo tutto quel che facciamo, sarebbe un discorso infinito”.
Un momento di avvicinamento ai “più” è stata già la transitoria conversione del tre stelle in hamburgheria. “Era un modo per fare conoscere ai danesi il nuovo Noma. Di solito abbiamo solo un 20% di pubblico locale, ma senza il turismo era l’unico target disponibile. Pensavamo di fare un menu di tre piatti accessibili, l’idea era abbastanza avanzata, ma ci siamo resi conto che non avrebbe raggiunto tutti. Cosa mangiano tutti? Hamburger! Abbiamo aperto quattro giorni la settimana per un mese e mezzo e ogni giorno era una festa. Vendevamo 2500 pezzi al giorno e a volte avevamo il doppio o il triplo della gente in coda. È stata una follia, ma molto divertente”.
C’è spazio anche per una piccola ritrattazione, che non è un’apostasia. Dal Manifesto della Nuova Cucina Nordica sono trascorsi 17 anni e ormai si può dire che i suoi punti sono acquisiti, patrimonio di tutti i cuochi del mondo. “Per noi questa filosofia di freschezza, prossimità e stagionalità era un modo per focalizzarci e ricercare durante qualche anno. I principi possono essere fantastici per guidarti, mentre ti rendi conto che non sono ricette infallibili. Il mio consiglio è di usarli come guida, ma di violarli quando pensi sia venuto il momento”.
Il cambiamento, dati i tempi, è anche nel modello di business e nelle sue finalità. “La gente che viene a lavorare con noi cerca stimoli per la sua creatività, quindi la cosa più importante è che si senta coinvolta nel processo creativo. Quanto all’organizzazione, le cose stanno cambiando dopo 150 anni di abusi nei ristoranti. Il lavoratore deve sentirsi sicuro e non può essere trattato in modo degradante o impersonale. Io stesso ero uno chef terribile, cambiare mi ha richiesto anni di terapia e meditazione. La parte finanziaria è quella più difficile in un sistema che è già sotto pressione, Noma ha un margine di profitto del 3%. L’occidente deve accettare che il prezzo del pasto è maggiore di ciò che appare, quello che non paghiamo noi, lo paga una persona sfruttata, un bosco abbattuto o un fiume contaminato”. Dove ci si chiede quale sia la coerenza, con la svolta democratica tratteggiata in precedenza.
Progetti per il futuro? Redzepi pensa largo. “Immagino soprattutto l’obiettivo di creare una struttura finanziaria per comprare spazi naturali da riconvertire alla vita selvatica. Vorrei che il Noma fosse una fabbrica di natura selvaggia. Ma non mi è mai passato per la testa di chiuderlo, amo molto il mio lavoro, ne sento il bisogno. Piuttosto ho pensato di non restare aperto 12 mesi l’anno, in modo da avere più tempo per reinventarci”.
Fonte: 7canibales.com