Banana e lime assieme al germano. Puxuri nel tiramisù. Più di seicento etichette, tra Francia e Italia, in cantina. La Taverna di Bacco è il ristorante fine dining apri-pista di un certo modo di concepire il ristorante contemporaneo in provincia.
La Taverna di Bacco a Nettuno
La storia
Quando sono andata, seduta al tavolo in marmo bianco nudo mentre bevevo un calice di Champagne Mont Marvin nell’attesa di una cena nippo - italo - brasiliana, mi sembrava impossibile essere a Nettuno. Eppure, ero lì, in provincia. Alla Taverna di Bacco. Il locale, in pieno centro, è stato aperto nel 2015, dalla famiglia Villani perché "volevamo qualcosa di diverso dal solito spaghetto alle vongole, qualcosa che ci rispecchiasse”. Papà Pasquale ha sempre avuto il pallino per il buon cibo ed il buon vino, al punto tale da farlo rientrare in quella ristretta e pericolosa cerchia di persone disposta a farsi centinaia di chilometri per mangiare in un determinato ristorante. E lo stesso fanno i figli, Gaetano e Lucia, quest’ultima impegnata in prima fila nella gestione del ristorante, assieme alla cognata Francesca Catanzani.
Lucia aveva vent’anni quando furono alzate le serrande del ristorante e da allora non ha mai smesso di sollevarle, lei, in prima persona, lasciando gli studi universitari per un amore più che viscerale per la ristorazione. Catalogata agli inizi come folle, la famiglia ha messo nella Taverna tanta passione, tanto entusiasmo, tanta ricerca al punto da rendere il luogo un punto di riferimento per gli appassionati del settore e l’apri-pista di un certo modo di concepire il ristorante contemporaneo in provincia.
La Taverna di Bacco è un ristorante di provincia non perché sia lontano dal tempo e dallo spazio contemporaneo e cosmopolita, tutt’altro. È un ristorante di provincia perché nato non per business, ma per un moto dell’anima. Qui regna il gioco di squadra: i rapporti interpersonali la fanno da padrone. Anche lo chef e l’intera brigata di cucina sono gli stessi da tempo.
Filipe Augusto Dos Santos è un giovane cuoco con la C maiuscola, uno chef che antepone la squadra a se stesso, un uomo dall’immenso bagaglio culturale, d’origini brasiliane ma di formazione italiana. Lui stesso racconta che l’amore per il cibo gli è stato trasmesso dall’amatissima nonna Cleide. All’età di 16 anni, incoraggiato da mamma Patricia e papà Francesco, inizia il suo percorso viaggiando per diversi paesi del Sud America. A 18 anni viene in Italia dove frequenta “ALMA”, la scuola di cucina di Gualtiero Marchesi. Conclusi gli studi fa diverse esperienze in alcuni dei migliori ristoranti d’Italia, tra cui Da Vittorio, 3 stelle Michelin, e per oltre 3 anni lavora per la famiglia Alajmo.
È qui che grazie alla grande amicizia con Silvio Giavedoni, chef del ristorante il Quadri, 1 stella Michelin, e Denis Mattiuzzi viene a contatto con Massimiliano Alajmo. È in questo, infatti, che Filipe riconosce un riferimento assoluto per gusto, tradizione e allo stesso tempo innovazione. Senza mezze misure Filipe definisce Alajmo un “genio”. La sua è una cucina concreta, fatta di prodotto e tecnica, eleganza e consapevolezza. Una cucina umile che vuole stupire con l’essenzialità. È una cucina libera, come l’intera filosofia della Taverna, un ristorante che non ha mai avuto paura di osare perché intorno a lui non c’era nessuno da copiare.
Il ristorante
Eccolo, il ristorante -come un acquario proveniente dall’iperspazio, metà in vetrata e per il resto in legno scuro e muratura- spiccare al centro della piazza di Nettuno. Pochi metri illuminati da luci studiate nel dettaglio a creare un’atmosfera intima e rilassata, arredata con un design moderno ed essenziale che lascia trapelare storia e ricordi. Uno spazio di 25 coperti reso ancora più bello perché così incongruo e distaccato dal contesto in cui si colloca. Non mancano dettagli che commuovono, dalle posate ai calici scelti, al porta olio da ristorante stellato.
Tutto è ossessivamente perfetto, senza essere rigido ma anzi spigliato e coinvolgente, di elegantissima precisione. E l’esperienza fatta sul campo dalla famiglia, tra cene e degustazioni stellate, si sente tutta, tanto nei piatti, dalla tecnica inappuntabile e l’identità spiccata, quanto nel servizio, empatico, coinvolgente e didattico. I piatti fanno felice cuore e cervello: sono di pancia, ma aprono la mente alla contaminazione. Sono piatti per tanti, ma non per tutti. Piatti che da Nettuno, dal palombo alla cacciatora, si spostano in Francia, nei fondi di carne e poi in Giappone, nei condimenti e le tecniche di cottura, fino ad arrivare in Brasile, in composte a base di banana che con stupore puliscono alla perfezione il palato dal boccone di petto di germano scottato.
Due i menu degustazione, La Sostanza e La Scoperta, rispettivamente in 6 ed 8 portate a 60 e 80 euro. A loro si aggiunge la scelta alla carta, ridotta a poche proposte del giorno, tra carne e pesce locale, che si evolvono di continuo. Da non sottovalutare la cantina, che ad oggi conta 600 etichette, divise equamente tra Francia ed Italia, sempre in fermento grazie alla curiosità di Lucia e Pasquale.
I piatti
Prima di vivere nel profondo l’esperienza alla Taverna di Bacco, sgranocchio qualche grissino al timo ed intingo nell’olio buono il pane caldo a lievitazione naturale, nato a partire da lievito madre a base di ceci. Da loro si fa così: si inizia con un aperitivo a ritmo di Champagne e bocconi da catturare con le mani. C’è la cialda croccante al nero di seppia con baccalà, ricotta e lime, la golosa crocchetta con ragù di cacciagione e la più raffinata tartelletta con mela rossa e foie gras.
Si prosegue con il Mare Mediterraneo, tra Sicilia e Liguria. C’è il carpaccio di pesce locale del giorno, nel mio caso orata con arance tarocco sia in vinaigrette sia pelate a vivo, olive nere taggiasche disidratate, pomodorini confit e aneto. Semplicità al servizio dell’ingrediente, equilibrio e armonia tra i sapori, per uno di quei piatti che rimangono in menu sempre, modificando gli addendi di stagione in stagione.
Crostacei crudi, polenta e sedano rapa. Tre elementi portati a tavola in una ceramica mozzafiato sulle tinte del blu e completati da una dose abbondante di caviale Asetra. I crostacei del giorno sono i gamberi e le mazzancolle, minuziosamente tagliati e appena scannellati a conferire tinte affumicate. Prezzemolo, sedano rapa in purea e cubi di polenta fritta sono l’anello di congiunzione ideale di un piatto crudo, invernale, d’origine veneta e applicazione laziale.
“Amo il Giappone. A 14 anni, i primi passi in cucina, li ho mossi a suon di salsa di soia, mirin e sakè” - continua Filipe mentre versa il dashi intorno all’animella. Due note ben esemplificative della cifra stilistica dello chef: una forte spinta orientale, spigolature sapide e acide, e dall’altra tecniche francesi, cotture minuziose di grande scuola. In questo caso le animelle sono burro per il palato, croccanti all’esterno e scioglievoli all’interno. Sapientemente ingrassate dalla salsa aioli, le animelle non risultano stucchevoli perché smorzate dall’insalatina acida e dal dashi caldo a base di scarti della cernia, lime e salsa di soia a profusione.
Carne cruda, shiso, miso e sakè. Solo quattro ingredienti per il piatto più entusiasmante e complesso della degustazione. La foglia di shiso in tempura accoglie il filetto di bovino inglese, finemente battuto al coltello, la cui piacevole dolcezza viene interrotta dalla tinta sapida del miso e più profonda del sakè. Da mangiare a quintali, senza stancarsi. Mai.
Il palombo alla cacciatora è il piatto principe delle tavole nettunensi casalinghe. Qui diventa ripieno di una finissima pasta all’uovo, chiusa a mo’ di tortello e immersa in un brodo delicato di pollo. Terra e mare si incontrano e si fondono assieme, scambiandosi profumi e connotati: il pesce sembra cane e la carne sembra pesce. L’olio alla maggiorana chiude il cerchio dei sapori. Vigorosa e possente è la pappardella XXL ripiena di coda di manzo, lucida e burrosa, adagiata sulla crema di carciofi e arricchita nelle consistenze da carciofi fritti e timo. Un primo di campagna elevato a creazione fine dining, elegante e rincuorante.
Sempre avanti, sempre meglio. Il germano segna la fine degli assaggi salati e lo fa con fuochi d’artificio. Il petto è magistrale nella cottura mentre coscia e alette finiscono nel patè dalla consistenza setosa. A legare il tutto arriva il fondo bruno ed una composta tanto inusuale quanto azzeccata di banana e lime, retaggio dell’infanzia brasiliana di Filipe. La liquirizia e la sua nota balsamica completano il piatto e preparano al dessert.
Un assaggio di crema di yuzu e cioccolato bianco con sorbetto di passion fruit, tè matcha e shiso e si è pronti ad affrontare il tiramisù. Classico, italiano, ancora una volta contaminato non solo dalle tecniche che alleggeriscono e modificano le consistenze e le temperature degli elementi, ma anche dall’inserimento di spezie lontane. Per la precisione qui arriva il Puxuri, una fava brasiliana dalle note balsamiche che ricorda la noce moscata. E si conclude la cena con cannoli farciti di crema pasticcera ed erba luigia, un assaggio di baklava e una tartelletta al cioccolato fondente, lampone, lavanda e rosa. Un tris di pasticcini tanto belli quanto buoni, diversi, non scontati, curati nel dettaglio che ricordano e sottolineano il concetto che essere provincia non significa essere provinciale.
Indirizzo
La Taverna di Bacco
Largo Luigi Trafelli, 5, 00048 Nettuno RM
Tel: 366 905 3795
Sito web
Domenica chiuso. Aperto a cena dal lunedì al sabato; sabato aperto anche a pranzo