Daniele Lippi ha scelto di nuotare controcorrente, dribblando il flusso di omologazione palatale per cavalcare un'onda audace. Oggi più che mai, il giovane chef di Acquolina incarna un mood culinario che spazia dal camouflage al culto della memoria atavica, per smuovere il subconscio oltre la gola.
Ristorante Acquolina - The First Roma
Spesso i piatti più riusciti sono quelli che ci colgono impreparati, trascinando i sensi in un vortice di sorpresa e interazione. Non basta un concerto di ingredienti superlativi, non basta una scocca patinata a prova di social. Neppure l'equilibrio è un valore aggiunto, se il gusto manca di profondità. Fuori da ogni logica, la scintilla creativa può mutare le sorti di un abbinamento o infondere ritmo a una narrazione essenziale, come una carte à jouer sfoderata di punto in bianco durante una partita dai risvolti imprevedibili.È su questi colpi di scena che s'innesta il menu di Daniele Lippi, 31 anni -di cui quasi la metà trascorsi ai fornelli- e un mood culinario freudiano, riflessivo, volto a smuovere il subconscio oltre la gola; approccio insolito, per lo chef di un fine dining d'hotel situato a due passi da via del Corso, fra insegne vetuste e trappole turistiche coperte di gloria stantìa. E infatti Daniele ha scelto di nuotare controcorrente, dribblando il flusso di omologazione palatale per cavalcare un'onda audace, senza però tuffarsi troppo a largo. Tanto basta a farci mangiare in apnea, con la curiosità che emerge spontanea fra una Ventricina di tonno e un'Anguilla vestita da costoletta di maiale, simulando onirici banchetti alla Lewis Carrol.
Il ristorante
Definire "immersiva" l'esperienza da Acquolina potrebbe suonar scontato, ma è proprio questa l'impressione che marca il passaggio dalla candida hall del The First Roma alla penombra rarefatta del ristorante dove il giovane chef è approdato nel 2019, dopo un decennio di Convivio Troiani e numerose tappe stellate oltreconfine- Alinea, Pavillion Ledoyen e Lasarte, solo per citarne alcune. La sala è un grazioso boudoir "sottomarino" con profili luminescenti alle pareti che spiccano sui toni scuri degli arredi, catturando l'attenzione a intervalli regolari.
Pochi coperti, accoglienza fluida e un costante ricambio di opere d’arte moderna provenienti dalla Galleria Mucciaccia contribuiscono a creare un'atmosfera meditativa perfettamente in linea con l'impostazione del menu. Non aspettatevi un percorso dritto e prevedibile; piuttosto un rally gustativo fatto di curve, deviazioni e qualche spigolo, che scandaglia e reimpasta usanze arcaiche squarciando il velo della memoria popolare. Capita, dunque, di lasciarsi ingannare dall'equivalenza fra prodotti marini e terrestri -i primi a imitazione dei secondi- in un camouflage dall'estetica circense, o di cogliere nell'uso dei legumi una forza espressiva che trascende la sobrietà del vegetale.
A colpirci, parlando con lo chef, è il rispetto per un background artigiano solo apparentemente estraneo alla macchina ristorativa. Una sapienza rurale che chiede di essere ascoltata, compresa e divulgata, perché frutto di esperienza concreta. “Sono per metà umbro e per metà romano”, spiega. “Quindi concepisco il Mediterraneo come un trinomio composto da mare, costa ed entroterra. Amalgamare questo bagaglio di risorse è un’operazione naturale, che mette al centro i sapori con cui sono cresciuto”. Prima di chiudersi in cucina Daniele studia i processi che stanno a monte, di cui parla con stima e ammirazione: l'idea del piatto nasce così, lontano dai fuochi.
Poi c'è la tecnica, una miscela di rigore e minimalismo che incorpora la ferrea disciplina delle brigate internazionali, rinsaldata da uno stage a Piazza Duomo con Enrico Crippa. Del resto, il “metodo analitico” è sempre stato un punto fermo nel suo percorso: all’inizio voleva fare l’ingegnere, ma quando ha avuto l'intuizione di accantonare i libri di meccanica per quelli di ricette, il cibo è passato rapidamente da diversivo a obiettivo. E la tenacia ha fatto il resto.
I piatti
A puntare i riflettori sui piatti è un equipaggio capace di grande empatia, che stimola l'interesse contestualmente all'appetito. Lo guida il maître Benito Cascone, passato da Alléno e da un santuario dell'ospitalità come il Mirazur. La stoffa del campione trapela nelle finezze del servizio, mai rigido o prolisso, seppur particolarmente attento al dettaglio. Tant'è che l'intervallo fra una portata e l'altra, preciso al minuto, si colma spesso di aneddoti sulle preparazioni, svelate just in time ai clienti più curiosi.
Gli fanno da spalla il secondo Andrea Menichelli e il sommelier Francesco Aldieri, pronto a pescare da una signora cantina (specie sul fronte bolle) senza però relegare il beverage al mero comparto vinicolo. Pari importanza, infatti, hanno i cocktail -con una carta interamente dedicata- e gli infusi, spesso abbinati ai cibi (molto interessante il mini drink di alga spirulina, fiori di sambuco e limone servito a inizio pasto con il crudo di ricciola). Quanto al menu, la scelta si divide fra tre percorsi -Ab Origine, centrato sui sapori autoctoni, Periplo, con incursioni nel Mediterrano oltre lo Stivale, e Anabasi-Catabasi, l'excursus più completo- rispettivamente di 6, 7 e 9 portate.
Dopo il consueto arcipelago di finger, fra cui spiccano il Wafer di patate con baccalà mantecato e crema di cipolla rossa e la Foglia di lattuga con hummus di pistacchio e caviale di aringa, la prima sorpresa è una Ventricina di tonno "nata con il lockdown, durante uno scouting di produttori. Visitando un'azienda in provincia di Teramo, dove vengono allevati i maialini neri abruzzesi, ho avuto l'idea di riprodurre questo salume morbido locale (preparato con la pancia del suino e insaccato nella sua vescica, ndr) seguendo lo stesso iter, ma in versione ‘marinara’. Da qui l'impiego della ventresca di tonno, che avevo già provato a servire sotto forma di bistecca con scarsi risultati: diversamente dagli asiatici, siamo poco avvezzi a consumare la parte grassa dei pesci, ma gettarla via significa sprecare un'occasione preziosa".
Anche perché il riutilizzo degli scarti crea un parallelismo interessante fra i due prodotti: "Macinatura, affumicatura e stagionatura si equivalgono, salvo l'aggiunta di una maggiore quantità di sale per compensare la ricchezza d'acqua del tonno". Al palato la differenza è sottile, quasi impercettibile: l'untuosità carnosa e il carattere speziato appianano il divario col salame teramano, disorientando piacevolmente le papille in abbinamento a due lievitati esemplari per sviluppo e fragranza: la pagnotta con farina di tipo 2 e un 5 % di farina di ghiande, che si lascia dietro un retrogusto persistente di fava di cacao, e la focaccina ai 3 lieviti, "reliquia" dei corsi frequentati a inizio carriera con Gabriele Bonci. "Ho conservato gelosamente la ricetta, dandole un tocco personale: da qualche tempo aggiungo all'impasto una polentina calda con 3 tipi di mais diversi". Ne risulta un finger morbido e aromatico su cui spalmare senza indugio la pasta di pesce fermentato. Un incipit "forte" che, però, non spegne la sorpresa dei piatti successivi.
Lo conferma la Ricciola con miso di lenticchie, fegato grasso e olio di nocciola; tre-quattro bocconi in cui il legume dialoga alla pari con la proteina, svelando una gestione del vegetale duttile e strategica. "Volevo applicare la tecnica orientale a ingredienti basic, che fanno parte della nostra cultura gastronomica da sempre. Ho scelto quindi le lenticchie di Castelluccio e il farro, sottoposti alla tipica fermentazione di scuola giapponese per bilanciare l'ematicità del foie gras". Un twist che sposa in toto la dolcezza pelagica della ricciola, mostrando come lo chef riesca a estrarre il massimo sapore dai frutti della terra senza sconfinare nell'overdose green.
Sul podio dei primi c'è il Riso con siero di bufala e liquirizia, abisso tridimensionale dai sapori squillanti come un coro di voci bianche: timbro sottile, eco potenziato. Qui, al pari della ventricina, è lo scarto di lavorazione a orchestrare l'assaggio: il cereale cuoce interamente nel siero, senza un goccio d'acqua o brodo, per 13 minuti, trattenendo la sapidità del residuo latteo fino a farla propria. Segue la mantecatura con poco burro e l'aggiunta di polvere di liquirizia. Il tutto si mangia dal basso verso l'alto in un rave di acidità e dolcezza, con il pungolo osè del sottoprodotto caseario che retrocede sul finale, affidando la chiusura alla voce balsamica della liquirizia.
La profondità erbacea, sospesa tra nerbo e freschezza, ricorre anche nello Spaghetto con gambero rosso, complice il teamwork tra sommacco e basilico greco.
Nel piatto un groviglio amidaceo che sprizza cremosità da ogni forchettata; di nuovo, il trucco sta nella mantecatura: "Per aumentare il volume della pasta preparo un brodo di scampi, burro e scalogno, che lega i singoli ingredienti strutturando un boccone rotondo, ma al tempo stesso vivace e intervallato dalle note verdi più spigolose". È l'antitesi del carboidrato ruffiano che sfrutta il prestigio della materia prima per vincere facile: Daniele amplia gli orizzonti, senza cercare la captatio benevolentiae di un pubblico ormai abituato a gustare il gambero rosso in tutte le salse.
Con i secondi si apre il capitolo trompe l'oleil, un dritto e rovescio fra carne e pesce che ha tutto il sapore del gioco di prestigio. A rompere il ghiaccio è una finta costoletta a base d'anguilla, che prende audacemente il posto del maiale. "Tempo fa avevo cotto sulla gratella quella di Comacchio e mi era parsa molto simile al taglio suino che caramellizza pian piano col calore, sviluppando sentori affumicati nella parte grassa. Al ristorante non faccio altro che inserire un osso nel pesce, praticando una tasca al suo interno, per poi scottarlo sul barbecue e glassarlo con un fondo di maiale aromatizzato al miele di cardo". È così che due animali agli antipodi per struttura, provenienza e lavorazione diventano cugini di secondo grado, accomunati da una fibra soda e sfacciatamente lipidica. La similitudine investe anche il condimento, servito a parte su una distesa di ghiaccio; trattasi di un sorbetto con mele e senape che nutre l'illusione fino in fondo, apportando un quid di freschezza ricostituente.
Ma se pensate che sia finita, vi sbagliate: il miraggio tocca l'apice nel Piccione "con la coda di scampo", appendice marina che rimpiazza l'ala del volatile a comporre una figura volutamente provocatoria. Ed è in questo espediente alla Tim Burton, che si coglie maggiormente la tensione verso una cucina spavalda, nell'accezione positiva del termine.
"Mi ha sempre stimolato l'idea di associare la carne 'fegatosa' del piccione alla nobile rotondità del crostaceo. Qui, estremizzando il concetto, il secondo viene utilizzato per farcire il primo, cotto in padella con una rosolatura che enfatizza i sapori". Alla base, una diade di succhi ultraconcentrati: il fondo del piccione e l'olio di scampo, felice sublimazione delle teste del pesce, più una salsa di ribes che modera i toni con eleganza.
Poi il "sembra, ma non è" vede via via aumentare la percentuale zuccherina. La terra di mezzo fra salato e dolce assume i contorni sinuosi della Ricotta di latte di mandorla, un pre-dessert 100% vegano che, come narra la sala, trae origine dalla consuetudine dei popoli siciliani di aggiungere l'acqua salata alla frutta secca, sopperendo alla mancanza del più costoso caglio animale con il magnesio dei flutti marini. Bilancia la morbidezza il riccio crudo in pairing col formaggio, quasi un gelato al marzapane condito di iodio.
Alla fine, risalendo il Mediterraneo si approda in Marocco, patria della Pastilla, uno scrigno di pasta fillo dalla farcitura semidolce a base di pollo o piccione, mandorle, zucchero, miele e aromi. Ricetta, questa, di cui lo chef si è invaghito a tal punto da sperimentarne una variante totalmente vegetale e priva di glutine: l'impasto viene rimpiazzato da veli di sedano rapa disidratati, mentre all'interno la crema frangipane riprende lo stesso bouquet del ras el hanout (miscela di spezie locali), in bilico fra cannella e zafferano. Accanto un sorbetto energizzante al latte di pecora e uva rossa, che diluisce il morso e fa tornare l'Acquolina in bocca.
Indirizzo
Ristorante Acquolina
Via del Vantaggio, 14, 00186 Roma RM
(Piano Terra – The First Roma)
Orari di Apertura
Lun – Mar: Chiuso
Da Mer a Sab: 19.00/21.30 – Dom: 12.00/14.00
Tel: 06 320 1590
Sito Web